Visioni - "Il libraio di Belfast" di Alessandra Celesia: la prigione del nulla

Creato il 10 marzo 2014 da Michelam

Ho davvero amato Il libraio di Belfast, il documentario del 2011 di Alessandra Celesia, regista italiana emigrata in Francia che con questo film si è aggiudicata ilPremio come Miglior Documentario e il Premio del Pubblico al Festival dei Popoli 2013
L'ho amato a partire dal titolo: il protagonista non è più un libraio, e Belfast non compare mai. Il protagonista “era” un libraio e Belfast “esisteva”, ma l'anima della città è morta il 12 maggio 1974, afferma John Clancy. Così si chiama il protagonista ed ex-commerciante di libri, che ci ha lasciato poco più di un mese fa: timidissimo, non proprio dotato per gli affari ma sincero amante dei volumi che, ormai in pensione, si divertiva a restaurare con i suoi semplicissimi mezzi.


Alessandra Celesia

Belfast è un fantasma: ne vediamo interni scarsamente arredati e ambienti di lavoro spenti. Altrimenti sono panorami abbandonati che ghiacciano la pelle, nuvole grigie e nebbia, strade infinite che sembrano arrivare da nessun luogo per raggiungere mete inesistenti, grattacieli che giureremmo disabitati, orizzonti insopportabilmente squallidi. Ovunque un senso di irrealtà e stasi forzata. Non ci sono né luoghi vivi né sentieri da percorrere. È interrotta persino la strada che un'anziana donna, di recente vedova, vorrebbe attraversare per tornare a casa. Belfast è la prigione del nulla, dai cui tentacoli si vorrebbe ma non si può fuggire. Se chiudo gli occhi, del film mi torna l'immagine di un giovane di profilo che guarda oltre un orizzonte indistinto nel suo nebbioso azzurro-grigio. Vedo il suo sguardo sensibile e pieno di speranza, che sogna un altrove irraggiungibile perché non esiste. Il libraio di Belfast è un documentario sulla sospensione, sull'esclusione, sull'assenza, sull'impossibilità di essere liberi e di (ri-)costruire la propria esistenza, il proprio Paese, una dimensione umana almeno tollerabile. La contemporaneità, anche se non fosse in crisi, non lo permette: sono perversi i meccanismi di un mondo occidentale in cui tutto si può comprare o è disposto a essere venduto. Anzi, Belfast è un pluri-paradigma. Non è solo l'universo degli esclusi; è l'universo moderno inconsapevole di aver perso ogni riferimento morale. I sogni sono sempre e solo illusioni, in questo Occidente di plastica e falsi miti.  Nell'intenso e calibratissimo documentario di Alessandra Celesia, Belfast assume così una plurivalenza metaforica che schiude molteplici prospettive e domande. Belfast è ogni luogo diventato non-luogo, e quel non-luogo che diventa l'interiorità dell'uomo se cede all'inganno di una civiltà che si crede tale, avanzata, oltre che generosa e democratica dispensatrice di successi. Dalla visione del Libraio di Belfast sono uscita con un senso di astrazione. Il giovane che rivedo con lo sguardo fisso all'orizzonte ha imparato, però, dall'ex-libraio che ti rubano i sogni; allora devi tenerli per te. Hanno molto in comune, del resto, l'anziano John Clancy, macerato da un lungo periodo di alcolismo e pronto a lasciarsi alle spalle la vita, e il giovane dislessico amante della lettura e della Roma antica. Certo il ragazzo voleva o vorrebbe andare in America. Infatti gli piace guardare gli aerei che partono. Peccato che l'aereo che, in una scena del film, sentiamo rombare, non stia decollando ma atterrando. La sua amica caduta nella trappola di X-Factor arriverà invece in aeroporto. Noi spettatori la lasciamo al telefono con l'Irlanda mentre si chiede se l'aereo è in ritardo. Lei, morbida e solare, che criticava l'amico rapper pieno di cicatrici per quell'accento troppo irlandese, e che ha la sua occasione per lasciare un'isola che non c'è, riuscirà a partire per mettersi in scena sul palcoscenico del talent show? Fuori dalle mura di Belfast, c'è del resto qualcosa che non sia il nulla e la causa di tanti, troppi nulla? Ma a rimanere nella memoria non è il finale sospeso, bensì i volti e le sagome di uomini dall'esistenza incompiuta, interrotta o uccisa, come il tema troncato o appena abbozzato di una melodia. Volti e sagome ripresi spesso di spalle o di tre quarti; primo e secondo piano non contemporaneamente a fuoco; rari gli sguardi in camera (ce n'è uno solo di John Clancy). Non si esiste, in terra irlandese. Esistono solo vuoti e recinti invisibili, o ciò che si protegge nel segreto di sé stessi perché non venga sottratto o tradito. “Non andare”, verrebbe da urlare al giovane amico del Libraio di Belfast. “Tieni pure gli occhi aperti, ma usali per sognare. Guarda l'orizzonte, ma quello dentro di te. Quello fuori di te, ammesso che oltre vi sia qualcosa, è una chimera mortale”.

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