Pi racconta di aver avuto il nome di una piscina, quella dove il padre (Adil Hussain) e la madre (la splendida Tabu) si sono conosciuti e innamorati, per poi sposarsi sfidando la rigidità delle caste indiane (essendo lei laureata e di famiglia molto più elevata rispetto a quella di lui). Il ragazzo, però, per evitare gli imbarazzanti equivoci del suo nome, ha cominciato a usare il diminutivo col quale sarebbe stato chiamato per tutta la vita facendo riferimento alla costante di Archimede, ovvero al pi greco, il rapporto tra circonferenza e diametro. Così facendo, sembrava che il giovane volesse trovare una regola, un indirizzo qualsiasi del cosmo, che desse senso a una vita intera, anche se ancora non lo sapeva. Da piccolo, Pi ha passato la sua vita nello zoo di famiglia, in mezzo agli animali e ai più vani ed eroicomici tentativi di trovare Dio. Non c'erano limiti di etichette: induismo, cristianesimo e islamismo andavano benissimo per lui, per quel tanto di verità che potevano garantirgli e il ragazzo (Ayush Tandon) ha fatto sforzi sinceri per trovare un suo equilibrio tra le diverse porzioni di cielo che ogni preghiera gli assicurava, combattendo anche la razionalità del padre e del fratello Ravi (i dialoghi a tavola della famiglia riunita sono tra i più interessanti del film e meriterebbero un discorso a parte). Poi, però, gli affari cominciarono ad andar male e il padre decise di lasciare l'India per il Canada, dove si sarebbero trasferiti tutti, dopo aver venduto gli animali. Durante la traversata, all'altezza della Fossa delle Marianne, la nave affondò e Pi fu l'unico superstite umano di quel disastro, in una scialuppa di salvataggio insieme ad alcuni animali: una iena, un pongo, una zebra e una tigre del Bengala, battezzata anni prima, per equivoco, Richard Parker. Presto, però, avvenne una selezione naturale e sopravvissero soltanto il ragazzo e Richard Parker, con i problemi di convivenza che ciascuno può ben immaginare.
Il ragazzo aveva sedici anni, allora, e una smisurata voglia di vita. L'attore che lo interpreta in questa fase, Suraj Sharma, al suo primo lungometraggio distribuito, ha un ruolo fondamentale nel successo di Vita di Pi: è il protagonista assoluto per più di metà del film e un protagonista di primo ordine. Lui e la sua paura della tigre, la sua attesa della morte, lui e il suo dialogo con Dio reggono l'intera pellicola per un tempo che sembra infinito, ma che scorre via sull'onda delle più intense emozioni. Se c'è un film in cui il 3D ha un senso insostituibile, questo è proprio Vita di Pi. Non per le esotiche e gradevoli sequenze documentaristiche che lo aprono, né per le aggressive zampate della tigre, ma per la profondità dei colori, dell'immagine, per un'immersione, a tratti sovrannaturale, in una scena, che sembra di bonaccia o di avaria, ed è invece un lento epilogo di salvezza, che ci traghetta oltre i marosi di millenarismi imbelli (e imbecilli). La capacità di Ang Lee di coniugare azione ed estasi, ansia di salvezza e stupore per la varietà del creato, paesaggi di bellezza celestiale e la costante signoria degli elementi fa di Vita di Pi un capolavoro indimenticabile.