di Silvio Cappelli
Parlare di Capograssi non è per me cosa ovvia e scontata. Non sono uno studioso, né tanto meno un esperto del suo pensiero, non appartengo insomma alla “scuola” capograssiana, se per “scuola” si intende quel particolare circolo ermeneutico che è andato via via definendosi nel corso dei decenni nei vari atenei italiani in cui il nostro ha preso servizio in tanti anni di onorata e stimata carriera universitaria2. Non sono appunto uno studioso, ma un semplice lettore di Capograssi. E ciò lo devo al prof. Mercadante – a cui va il mio personale ringraziamento per l’onore concessomi partecipando a questo ciclo di incontri –, che conobbi a Sulmona qualche anno fa, nel 2007 per la precisione, in occasione di una delle ultime edizioni del “Premio” omonimo. Le parole, le uniche, che il prof. Mercadante mi disse furono le seguenti, semplici ed immediate: «Legga Capograssi!». Da allora non c’è stato periodo in cui la lettura di Capograssi non abbia accompagnato il mio percorso scientifico, in gran parte occupato dal confronto coi classici dell’idealismo tedesco e della prima metà del XX secolo e, nell’ultimo triennio di dottorato, dal dibattito filosofico negli anni della Repubblica di Weimar. È dunque da lettore “disinteressato” di Capograssi, a cui mi lega anche la comune origine peligna, che cominciai questa lunga, continua, mai interrotta conversazione con un pensatore che nel giro di poche pagine, attraverso quella sua modalità di scrittura che è ad un tempo essenziale e coinvolgente, attraverso quella sua capacità di analisi così profonda e acuta che mai ho avuto modo di incontrare in altri pensatori, aveva destrutturato il normale approccio alle cose e ai problemi stessi della filosofia.
Vita e tempo nell’ultimo Capograssi. Prime osservazioni e note (PDF)