Oggi per le Vite fogliate in camera oscura non una biografia ma un racconto di Sabrina, perchè le vite possono essere quelle della propria fantasia.
Atelier -Volevo correre come il vento!
Sì, di mestiere faccio la natura morta. Come un vaso, un cesto di frutta, quello che vuoi tu. E mi viene sempre da ridere, quando penso che da ragazzina sognavo un lavoro che non mi facesse stare chiusa da qualche parte. Ho imparato a sorridere di nascosto, senza spostare il tronco, a testa ferma, controllando il movimento del collo. Faccio così, suddivido il mio corpo in tanti pezzetti -il torace, le braccia, le mani, i piedi, il collo- e muovo al rallentatore solo quelli che non sono inquadrati dall’occhio accorto del pittore. E’ un po’ come imparare a gridare sottovoce, fa male tutto, occorre pazienza, allenamento. Allenamento e pazienza. Ho un respiro lento, un soffio silenzioso, custodito da tele e pennelli, da carta e grafite. E devo stare ferma, controllare il mio ingarbugliato regno di muscoli e pensieri, tenerlo legato e armonioso allo stesso tempo.
Certe volte sbaglio, me ne accorgo dal rumore secco della tavolozza appoggiata sul tavolo, ma sono diventata brava a rigovernare subito la plasticità del mio corpo. Come se fosse di una materia che si scioglie e ricongela per uno strano sortilegio. Sono una danza di curve precise, una strada da non sbagliare, una statua viva e morta nello stesso tempo, immobile. Quasi come un vaso, un cesto di frutta, quello che vuoi tu. Ho imparato ad essere temporaneamente qualcos’altro, ad indossare sguardi attenti, luci che scaldano, ombre che tagliano, abiti di pazienza. Così il tempo gocciola piano in una lunga attesa che non passa mai; la staticità ed il fruscìo del silenzio costringono al pensiero, chiudo gli occhi, ascolto il ricordo; ed è esattamente lì, attraverso di lui, che i miei muscoli corrono all’impazzata, assieme al profumo dell’erba dopo la pioggia, con tutta la potenza di cui sono capaci, senza spostarsi nemmeno di un millimetro. Mi sembra ancora di sentire il nonno quando, da bambina, mi ammoniva col dialetto delle mie parti – vai piano, più p i a n o – mentre in bicicletta correvo anche più forte dei maschi.
[ Oh, adesso sì che vado p i a n o, nonno… ]
Tornavo sudata, senza quasi fiato e una collezione di ammaccature color delle viole sulle ginocchia. Diceva che avevo l’argento vivo addosso e che ero come uno di quei cavalli di razza che non si lasciano domare da niente e da nessuno, una forza della natura che non può essere fermata. Eppure su di una tela, sì. Ho sorriso di nuovo. Quando esco di qui non prenderò l’autobus per tornare a casa. Voglio correre fino a stare male; io voglio correre più forte del vento.
Fotografie di Rafal Bednarz