La performance di Ricky Tognazzi nello spot della Glassa Ponti mi ha riportato indietro nel tempo: non riesco a guardarla senza provare un penoso malessere e la voglia di essere altrove. Sarà che il buon Ricky mi è sempre stato simpatico, sarà che sia come attori sia come registi c'è in giro di molto peggio, il risultato è che mi piange il cuore a vederlo, seppur consenziente, precipitare di spot in spot lungo la china di un format inarrestabile nella sua discesa verso l'orrore profondo. Dalla maldestra citazione di una scena di Lost in translation degli esordi siamo infatti arrivati a una delle prove tradizionalmente più infelici nella storia della pubblicità italiana: il rap. Non si capisce perché, ma la tentazione di risolvere tutto con un rap di prodotto continua a mietere vittime da un paio di decenni.
Misteriosamente, c'è sempre qualcuno che ci cade puntualmente, e va ad aggiungere il suo rap alla nutrita compilation di quelli che l'hanno preceduto con i medesimi, atroci risultati. Un solo esempio per tutti: l'anziana che si dimenava nell'indimenticabile spot Fiat Uno Rap dei primi anni novanta. E lì c'era almeno una giustificazione, poiché Rap era l'infelice nome del modello.
In questo caso c'è caduta in pieno l'Armando Testa, la matrona delle agenzie italiane.
Ed è toccato al cinquantacinquenne Ricky Tognazzi, travestito come l'animatore più scrauso del più scalcagnato dei villaggi vacanze, dare vita a trenta secondi di purissimo imbarazzo per chiunque abbia un minimo di familiarità con il senso del ridicolo.
Mi chiedo cosa ne penserebbe papà Ugo. Ma anche papà Armando.