Vittorio Bodini: Cent’anni di solitudine

Creato il 02 luglio 2013 da Cultura Salentina

2 luglio 2013 di Augusto Benemeglio

Il poeta più odiato

Entrate dove c’è un poeta – diceva Elio Vittorini – e subito vedrete che il problema di un paese non ha più confini precisi, diventa un problema di tutto il mondo. Ed è vero, se parliamo di Vittorio Bodini, di cui si celebrerà (?) tra poco il centenario dalla nascita (6 gennaio 1914). Il Salento ha in lui – animo inquieto e spirito polemico, che aveva dentro di sé un’allegria feroce, un dramma che si scioglieva nel riso – il suo poeta più rappresentativo, quello che lo ha descritto e criticato a suo modo,delirante e struggente, senza fare sconti: è il Salento degli olivi dal cuore umano e dei sordi tamburi e del sangue, abbandonato, pieno di cicatrici, il Salento dei tramonti da bestia macellata, per sempre inciso nel tronco, con il sole a picco che batte come un martello, che s’arrampica sulle tue ginocchia, il sitibondo Salento immobile, impotente e rassegnato nel suo splendore senza attributi, con le aggregazioni bianche che s’addensano sulla fronte delle serre, il Salento che danza nell’acqua con le onde che si fanno cavalli di spuma, il Salento della pietra insanguinata e della luce, la luce come sostanza di tempo, la luce che disegna invenzioni di specchi e riflessi, che cancella i giorni e le ore in cui nulla accade; il Salento sempre in attesa di vomitare altri morti, altri martiri dalle case bianche, condannato alla sua autodistruzione. Il Salento condannato alla propria solitudine, emarginazione, lontananza, separazione dal resto dell’Italia, il Salento del deserto dei Tartari, periferia estrema dell’Impero. Ma è anche il Salento di struggenti rari squarci di speranza, di spazi aperti e cieli azzurri e mari limpidissimi. C’è tutto questo – e altro – nelle sue poesie, che ne fanno il poeta salentino più odiato dagli stessi suoi conterranei, quelli di ieri e quelli di oggi. E di ciò sono stato diretto testimone una decina d’anni fa, quando portavo in giro il mio recital “La luna e Metamor” scritto per il trentennale della sua morte (1970-2000) un po’ dappertutto, in particolare nelle scuole salentine, ad esempio nell’Istituto Statale d’Arte “O.Giannelli” di Parabita, dove insegnò storia dell’arte. Erano gli stessi insegnanti che non desideravano far leggere e commentare le sue poesie agli studenti. Non le capivano, o non le gradivano. A questo si aggiunga – come annota Bonea – l’insipienza e l’ignoranza degli amministratori che hanno cambiato nome a Via De Angelis, la strada sbilenca, dove, dice Bodini,

ho abitato ogni numero civico della via

con tutti,

con le rondini,

coi vecchi che muoiono all’alba

in una verde luce d’acquario

con quelli che sloggiano

portandosi coi mobili sul carretto

i vetri della finestra

e l’albero di limone del cortile.

E pensare che un gruppo di case come “Rio Bo” è diventato famoso nel mondo per un’intuizione magica di Palazzeschi, come poteva essere la Cocumula di Bodini

Un paese che si chiama Cocumola

è

come avere le mani sporche di farina

e un portoncino verde color limone.

Uomini con camicie silenziose fanno un nodo al fazzoletto

per ricordarsi del cuore.

Il tabacco è a seccare,

e la vita cocumola fra le pentole

dove donne pennute assaggiano il brodo.

La luna dei Borboni

Forse quel Salento ispanizzato e surreale da gridi e coltelli e dolore, quel Salento lorchiano sul tipo di “Nozze di sangue”, con la pianura di rame/il sole nero, gli alberi che affondano le verdi chiome nelle mani di un cuore ferito, l’alba che era un cavallo a Santa Trinità, forse le rabbie e le notti leccesi dello “sconfitto”, i tanti deliqui e abbandoni, il dio stempiato che mette in fuga i passeri in cerca di briciole d’oro, e la dolce croce/dal dolce nome di Gesù / il cavallo che si mette a piangere, o si passa la mano sulla fronte, è ancora una sub-regione incomprensibile per chi non sa, o non vuole vedersi allo specchio. Per lui il Salento fu sempre il dramma del grido delle bambine, delle gazze chiuse nell’orcio, dell’allodola che vola con tutto il cielo in gola / del rissoso monaco di Copertino, / il Santo patrono degli studenti, unica via possibile per una redenzione.

Tutto ciò lo troviamo ne “La luna dei Borboni”, il suo capolavoro. E’ alla luna sfregiata che abbaia il cuore del poeta, la lingua di fuoco pallido e il sapore di mela, i pomodori secchi /attaccati a uno spago, le donne dai cuori di cicoria, il corpo rosa della brindisina che pesa con uno sguardo il volo dei gabbiani / e la pianura si gira su un fianco / se lei parla; la luna che cadde e urtò la guancia contro una pietra tagliente/ il tuo corpo s’illumina e io bevo dai tuoi cigli. Dice Oreste Macrì da Maglie, uno dei “grandi” della critica della letteratura italiana, che il desiderio animico/magico del poeta è quello di voler trasformarsi in tutti gli esseri e in tutte le cose, (vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano: / divento ulivo e ruota di un lento carro, / siepe di fichi d’India, terra amara/ dove cresce il tabacco), dalle monachine pendule fornite d’olio elettrico/dell’anima/ durante la processione per la festa di Sant’Oronzo agli angeli dalle dolci mammelle, /guerrieri saraceni e asini dotti che corrono sui cornicioni delle chiese

Vittorio Bodini

L’intarsio e l’ironia

Egli lavorava d’intarsio – scrive Ennio Bonea -, con essenzialità di tratto e ironia, ma con continuo esercizio di revisione e riduceva a sintesi poetica la lunga applicazione, la sua scorciatoia. Tra varie ironie metalliche e combustioni uomo-natura./ da demone tra vento e gatto eunuco (è quel che resta della speranza che s’aggomitola e guarda i sepolcri) agli echi cinerei di cui /le sete gialle si stingono/ viene fuori un impasto e un contrappunto tra l’infernale e il delicato, l’aspro e il tenero, bagliori di tenebra e luce, breve stanza in tenebra nell’infinito (un inferno più docile delle viole), orologi come mosche nei freddi dell’autunno, uccelli sotterrati, la musica sepolta, una luna scintilla sul rasoio, il tre di cuori è caduto, rosse lune delirano nei prati, armano contro i teneri fiori. Vaga l’anima di Lino Suppressa, che voleva a Roma con sé, pittore leccese mai emigrato, per timore di perdersi, come si perdono quasi tutti i salentini che emigrano compreso lui, che aveva portato il Salento in Spagna e quest’ultima, con tutto il surrealismo dei cosiddetti “nipoti di Gongora” (Diego, Salinas, Alonso, Lorca, Alberti) nella propria anima e nella propria terra, quando vi fece ritorno con una forte volontà di rivalsa e di rinnovamento. Vi era ritornato con la metafora di San Giuseppe da Copertino, famoso per i suoi voli. Anche lui, rissoso per carattere, polemico, scostante, vuole sollevarsi in volo “sopra la fossa dei leccesi”, desidera lievitare tra gli alberi che rappresentano la stagnante immobilità della cultura leccese, che rallenta con l’intrico dei rami il libero fluire del pensiero, vuole vincere l’ipocrisia, la falsa cortesia della provincia. Ritornò a Lecce con i propri figli mai nati veramente, tornò in braccio a tutte le madri salentine che sono come capre senza musica / con un segno di croce sulla schiena,/ o un cerchio in attesa di un’altra vita, che hanno i denti che risplendono d’un tristo incantesimo d’odio; e tu, Madre, eri il pianto, ed io, piccolo come un pennino sgangherato, ero il silenzio dannato alla tua e nostra terra.

Addio al Salento

Era un grande studioso di letteratura spagnola, un impareggiabile e appassionato traduttore, un ispanista che aveva la Spagna nel sangue, – disse Leonardo Sciascia leggendo la traduzione del “Don Chisciotte”, una delle sue gemme. E fu solo grazie alle traduzioni che riuscì ad avere il riconoscimento dell’Accademia che egli – scrive Antonio Leonardo Verri - inquieto, bizzarro, sanguigno, poverissimo giornalista, corrispondente da Squinzano come da Madrid, non amava, e tuttavia ciò gli valse l’ordinariato universitario e la possibilità di vivere dignitosamente con la sua Ninetta, la brindisina, e la figlia Valentina.  Fondò “L’esperienza poetica” (1954-1956), una rivista che cercava nuove strade alla poesia italiana, rifiutando sia il postermetismo sia il neorealismo. In tal senso – dice Lucio Giannone – anticipò la tanto più nota rivista bolognese “Officina”. Amava il Salento, l’estremo lembo di terra, nel quale visse gran parte della sua esistenza, ma non poteva viverci e ciò sarà per lui sempre tema denso di tristi riflessioni e di dolori esistenziali lancinanti: « Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare; /.

Ma poi se ne andò, non poteva restare in una terra in cui si sentiva odiato.(“solo i cartapestai mi vogliono bene/ in questa terra di tarantolati, scazzamuriedri e lupi mannari), ma soprattutto perché era scontento, scontento dell’inerzia dei salentini di fronte a gravi situazioni di ritardo, storiche, politiche e sociali; era indignato per l’ingiustizia e lo sfruttamento dei contadini. Era soprattutto scontento di sé, della propria esistenza, si sentiva frustrato. Tutti i suoi fremiti di lotta, i deliri di riscatto, i momenti di passione furibonda, la sua struggente speranza per elevare culturalmente e civilmente la sua terra, erano falliti. Non poteva incontrare – dice Bonea.- il favore dei ceti umili ai quali non si rivolgeva, né lo leggevano, e neanche il ceto della borghesia, che era il precipuo destinatario. Per cui la sua straordinaria poesia visionaria, surrealista, una sorta di epifanica simmetria lirica che ha portato il Salento e la salentinità a dimensioni europee, non fu mai gradita, né compresa dai salentini, non accolta nelle istituzioni letterarie perché priva dell’avallo dell’ideologia marxista allora dominante culturalmente. E così, con acuto il senso del proprio fallimento, alla vigilia del natale del 1959, Vittorio decise di fuggire – per sempre – dalla propria terra e andare a vivere a Roma. E la sua partenza, scrive Donato Valli, impoverì la provincia leccese, che si avviò verso una fase di “oscura normalizzazione. E così se ne andò il più salentino dei salentini con il cuore gonfio di amarezza e di rancore, ampiamente ricambiato dai suoi conterranei.

Ma prima di partire definitivamente per Roma si recò a Maglie, a far visita al suo grande amico/nemico, Oreste Macrì; da Lecce prese il trenino del “far west” e lungo il percorso rivide i ragni bianchi, la ficaia, i corvi, le chiocciole, la terra che promette a di fiorire in canti dopo l’inverno, i pomodori secchi/attaccati ad uno spago/e le donne dai cuori di cicoria/ le bambine negli orti/ (che) ad ogni grido aggiungono una foglia/ alla luna e al basilico..Ognuno di quei gridi, ogni suono/ erano distaccati dalla trama del giorno,

Disse a Macrì, Oreste tutto un paese sorge contro un uomo/ condannato al coraggio.

Mi sento come un polpo sbattuto ancora vivo contro lo scoglio. Devo andar via.

Hai ragione, Vittorio, disse Macrì, e insieme bevvero mieru, e riepilogarono tutto il vecchio Salento. Erano stati redattori, da giovani, della “Vedetta mediterranea”, seguita da “Libera Voce”, in quella catena chiusa dei periodici della letteratura critica dell’ermetismo europeo, dove spesso letteratura e politica si congiunsero nella formula di liberalsocialismo. E Bodini fu “angelo con la sciarpa sulla tenue cupola/ della cattedrale di Maglie, che agitava in un addio senza ritorno.

Morte a Roma

Bodini, col suo barocco inquieto, contraddittorio, angoscioso, disperato, contrario allo stile della facile meraviglia e della stupefazione, nemico della facile rima e dell’ovvio musicale, vivrà a Roma una non lunga stagione frenetica, senza darsi mai pace. La sua sarà la Roma notturna barocca e decadente de” La Dolce Vita”,e farà sodalizio con un altro grande salentino “superbarocco”, Carmelo Bene, che gli affidò la parte senile ed onirica di Don Giovanni nella sua delirante opera omonima. “Il cinema – disse Bodini- è l’arte più barocca che ci sia, perché in esso coi colori, con la materia, con la parola, spontaneamente si dà quel dinamismo che essi perseguirono con mille accorgimenti, con quella totale labilità e momentaneità delle immagini che corrono rapidamente incontro alla loro distruzione”. E lui la cercò la sua distruzione ad ogni luce dell’alba, pastora dei morti. Scegliere è sbagliare, disse. Dove mi porta questa strada di pietre antiche, questa concavità della storia e della memoria, questa sacca di fantasmi, quest’anfratto d’ombre, questa bocca di mattoni e di cemento che si sgretola davanti a me. Come farò/ a diventare antico, se non con il morire? Mettersi il nulla in testa/ e andare via. Vive come se ogni giorno fosse l’ultimo, come se ogni poesia fosse l’ultima e sfoga la sua passione per l’alcool e le sigarette, dopo un infarto che considera “un cortese anticipo di morte”. Non era un’arpa, era solo/ un’altalena senza suono/ con tutto il vuoto di te. In un clima di vigilia natalizia era arrivato undici anni prima, e il 19 dicembre 1970 se ne va per sempre, un altro – definitivo – infarto lo stronca sul treno che va a Pescara, dove insegna Letteratura Spagnola all’Università.Fa in tempo a rivedere i volti della moglie e della figlia: “Quanti velieri possono uscire da un sorriso!/ Quanti sogni da un paio d’occhi?. Ha solo cinquantasei anni, ma era ormai un vecchio, che somigliava sempre più alla figura del suo amato e derelitto don Chisciotte. Fino all’ultimo rimarrà orgoglioso e fragile, arrogante e insicuro, tenero e violento, sempre in lotta con sé stesso e con il mondo che lo circonda, ironico e ingenuo, allegro e tragico, sprezzante e dolcissimo, costantemente insoddisfatto. Non chiederà mai scusa per le invettive alla sua città, e Lecce lo ripagherà con l’indifferenza e la freddezza. Ma la sua poesia è un dono prezioso per l’umanità tutta. Continua ad essere un mare costantemente agitato, con un’onda lunga di risacca che prima o poi toccherà tutte le coste del Salento, scaverà le rocce, entrerà nelle case, nelle scuole, nelle prigioni, negli ospedali, soprattutto nei cuori di quel suo paese così sgradito da…doverlo amare.

Roma, 16 maggio 2013    Augusto Benemeglio

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