Auguri in tutte le lingue, anche se c’è chi non è d’accordo.
E una puntata carica di consigli di lettura.
Auguro a tutti una scuola pubblica…
di Marina Boscaino
Auguro a tutti una scuola pubblica di cui essere orgogliosi. Una scuola in cui non sentirsi obsoleti, demodé, “vetero” pronunciando – come la retroguardia passatista di un mondo che non c’è più, al quale guardare con malinconica nostalgia – le parole Costituzione, inclusione, uguaglianza, emancipazione, laicità, integrazione.
Auguro a tutti voi di continuare a sentirvi in imbarazzo tra chi parla altre lingue, declina altri principi: quelli della privatizzazione, della premialità senza regole, del neoliberismo galoppante, del localismo, dell’impoverimento dei saperi, della rottamazione di vite di lavoratori, di destini di studenti. Quelli delle impronte ai bambini rom, dei bavagli alla libertà di espressione, del taglio del sostegno.
Auguro a tutti una scuola amministrata da chi non conosce il millantato credito, lo slogan di maniera, il trionfalismo ad uso dell’audience, la manipolazione dei dati. Da chi ammette i propri errori – presenti e passati – e chiede collaborazione. Auguro a tutti una scuola capace di rinunciare a certezze statiche, facendo i conti con la realtà, per ridiscutere dialetticamente il senso delle cose, gli aggiustamenti, le deviazioni.
Auguro una scuola di cui parli solo chi la scuola la conosce davvero. Dove non ci sia posto per la rassegnazione e – ancor meno – per l’ignavia. Dove sotto il nome di discrezione o timidezza non si celi il disinteresse del “tanto non cambia niente”; dove ci si assuma il rischio dell’impopolarità, pur di difendere la propria coerenza e ciò in cui si crede.
Auguro una scuola in cui a qualcuno vada davvero di rispondere alle domande di ragazzi che stanno tentando di capire in un mondo che li scoraggia a capire. Che li vuole ottusi, indifferenti, piatti. Auguro una scuola in cui le tecnologie diventino davvero strumenti di conoscenza critica e autonoma, e non occasione di marketing concettuale. Auguro a voi tutti una scuola che – attraverso la cultura – disveli la cittadinanza attiva.
Ve la auguro perché sogno un mondo in cui ci sia posto – un buon posto – per tutti coloro che abbiano intenzione di far proprie le regole della convivenza civile, della democrazia, del rispetto reciproco, dell’integrazione, della solidarietà. E la scuola pubblica – almeno quel modello teorico licenziato 62 anni fa da donne e uomini che hanno studiato, creduto, lottato per darci un futuro migliore – mi sembra il luogo più idoneo per provare a concretizzare quel mondo.
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Oddo Mantovani, Lettera di classe
di Renata Morresi
Lettera di classe è un saggio in forma epistolare scritto da Oddo Mantovani tra il 1997 e il 2004, anni cruciali per la Scuola e l’Università italiane, investite dall’impeto riformatore di vari governi.
Saggio divertentissimo poiché, come vuole l’etimologia di devèrtere, è molto divèrsus dall’indagine sociologica o dal commentario storico-politico che ci si potrebbe attendere visto l’argomento, e meglio di quelli sintetizza una riflessione profonda sulla deriva culturale che è diventata la debacle di oggi.
E perché fa (amaramente) ridere: le riforme “di intrattenimento”, l’inesausto campionario di “esperti del settore”, i “tecnopsicomagistropinionisti” sguinzagliati per la penisola per produrre “innovazione”, le miriadi di griglie e moduli e formulari, i corsi d’aggiornamento taroccati, l’ignoranza incallita ridefinita come “saperi minimi” sono tra i motivi che innervano le lettere di un sarcasmo irresistibile.
A fare da contrappunto le citazioni colte che costellano il testo: Montaigne e Jarry, Soriano e Da Ponte, Flaiano, Marco Aurelio, i fratelli Grimm, e poi Broch, Petrolini, Villon e Dante e Mario Luzi e Gadda e quant’altri di cotanto senno, i protagonisti di una cultura immensa e presente, che qui costituiscono un coro che continua ad ammonire e far luce. Mantovani ne fa una partitura di voci, a volte incredule, spesso sferzanti, la cui verità è quanto mai attuale.
A scrivere è un professore di Italiano e Latino, docente al Liceo fin dagli anni Sessanta. L’interlocutore, muto, è il Ministro della Pubblica Istruzione (che oggi non esiste più: dal 2008 la denominazione ufficiale è Ministero dell’Istruzione, la parte “pubblica” avendo fatto la fine che sappiamo). Forte della lunga esperienza scolastica, l’autore racconta, come protagonista dell’educazione di tanti ragazzi, come cittadino indignato, come testimone impotente, come finissimo uomo di cultura, il progressivo smantellamento dei valori che fondavano la Scuola pubblica in Italia.
Oggetto delle lettere non sono “il problema della Scuola”, “i bisogni della Scuola”, “la riforma della Scuola”, e tutte le intestazioni consimili a cui da anni i media ci hanno abituato (quasi che nelle scuole albergassero tutte le piaghe mafiose, i crac finanziari, le corruzioni sistematiche, le frodi fiscali, ecc. che sono al cuore del mal d’Italia). Materia principale del riflettere è il senso del sapere, della Scuola di tutti, dell’educazione.
Da tempo non sentivo porre così lucidamente la questione, anzi, non sentivo pronunciare insieme le due parole “educazione e cultura”. Le politiche sciagurate degli ultimi anni hanno progressivamente svuotato di senso la Scuola, definendola inadeguata e improduttiva. L’hanno scientemente disastrata inondandola di burocratismi e metodologie, defraudandola di risorse, avvilendone i docenti e rubando il futuro a studenti frastornati dalla furia consumistica che imperversa nel cosiddetto mondo reale e che li vuole “manovalanza senz’anima” (104).
Una Scuola che non ha a cuore l’educazione e la cultura, la conoscenza e la memoria, è, essa sì, inutile ai giovani. Anzi, prestandosi all’opera di ottundimento generalizzato essa ha “lasciato che questa società rubasse a ciascuno di loro i propri segreti, i propri sogni, una propria ricerca” (36). Limitando sempre di più gli strumenti da offrire ai giovani per “diventare meno fragili dentro e conoscere, ciascuno, un po’ meglio se stesso e rispettarsi” (41), la Scuola, insomma, è stata deformata, più che riformata.
Dei cambiamenti che pure si dovevano nulla è stato. Il rinnovamento tanto strombazzato è smascherato da Mantovani come vacua messa in scena: un “plurivaniloquio” forsennato di programmazioni, metodologie, sperimentazioni che serve solo a nutrire uno stuolo di “operatori del settore”, “novelli acutissimi Archimedi”, “Scholavipsapientes”, insomma tutti gli entusiastici “innovatori” che entusiasticamente innovano “con una facciata di cartapesta, con… una pletora di effetti speciali, di lustrini sgargianti e di ridicoli preziosismi terminologici” (70).
La qualità dell’insegnamento (i famigerati criteri meritocratici) sembra calcolarsi in base alla quantità di fotocopie fatte, oltre che all’applicazione di un “labirinto inestricabile di indicazioni le più oblique, contorte, cavillose e per lo più arbitrariamente inani” (95) che servono solamente a promuovere in massa gli alunni parcheggiati in aula. Mantovani parla di “elementarizzazione” (60) della scuola (ovvero: del suo annichilimento). Si è detto della liceizzazione delle università. Io parlerei più in generale di stupidizzazione della società.*
Lo schema portante di questa operazione ‘sociale’ lo si ritrova nella Scuola in forma di
“mostro tricefalo: una testa, quella di una scuola pubblica ridotta a deposito della massa; una seconda, quella d’una scuola privata di bassissimo livello culturale, dove i genitori, che possono economicamente permetterselo, pagano il diploma che attesti la non ignoranza dei loro bravi pargoletti; infine la terza testa, quella di una scuola privata davvero seria e rigorosa, una scuola d’élite insomma, fatta per i figli d’una parte della ricca nomenclatura politica e industriale” (43).
La vera domanda rimane, e campeggia, insieme alla data dell’11 ottobre 1999, in cima ad una pagina lasciata per il resto completamente bianca: “Chi difenderà i più deboli?” (62)
Non dimenticherò facilmente le pagine che questo libro dedica alle forme dell’umano nel presente, sempre più regressive, sempre più punitive:
“Quando avrà 15 anni al ragazzo si darà una scheda e gli diranno: Questo sei tu, ovvero, Tu sei questo e gli verranno mostrati una serie di fogli in cui l’inconsapevole vedrà un estraneo sezionato e segmentato in mille e mille voci, le quali voci per il loro numero infinito e per la mole rischiano di intralciarsi da sole e di divenire intercambiabili, per cui uno può essere catalogato un altro e viceversa. Il ragazzo, disorientato e inerme dinanzi alla cattedratica certezza di tante prove schiaccianti presentategli da onniscienti infallibili esaminatori (ipsi dixerunt vel scripserunt), si inginocchierà grato esclamando: Ora so chi sono. Chi?” (60)
Lo smantellamento della Scuola sembra corrispondere a una cupio dissolvi antropologica che riguarda oggi la persona tutta, voluttuosamente impegnata a godere, rifarsi, pomparsi, armarsi, farsi cyborg, mascherarsi, disperdersi in bit, svuotarsi e ricrescere in eterno ‘sviluppo’, ma, sostanzialmente, destinata a girare a vuoto. Così va il resto del Paese, oramai socialmente inceppato e che sembra aver perso il lume dell’etica pubblica, così va la Scuola, che soffre d’aver abbandonato la sua vocazione, umanitaria prima che umanistica: essere Scuola di tutti, al di là del censo e del ceto e prima di ogni interesse di parte, “per avvicinarci al segreto delle cose e al cuore degli uomini” (126).
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Geneviève Appell e Anna Tardos (a cura di), Prendersi cura di un bambino piccolo
di Grazia Honegger Fresco
Questo volume – copertina discutibile, ma ricco e propositivo – riunisce la maggior parte delle relazioni presentate al Convegno Europeo svoltosi a Budapest, primavera 1996 con ampia partecipazione di studiosi di varie nazionalità. Si celebravano i cinquant’anni dell’Istituto di via Lóczy, fondato da Emmi Pikler e il tema era Du corporel au psychisme.
Emmi Pikler, geniale pediatra ungherese, all’indomani della tragedia bellica, colse la sfida di accogliere bambini orfani o abbandonati aiutandoli a crescere in modo sano e a diventare a loro volta genitori positivi.
Cresciuta alla grande scuola pediatrica di Vienna basata sul riconoscimento delle potenzialità infantili, elaborò negli anni, grazie a un’osservazione continua, una modalità di aiuto allo sviluppo, semplice e insieme raffinata: da un lato la consapevolezza che un piccolo senza madre per non andare in frantumi esige cure corporee costanti, stabili nei modi e nei gesti, attuati sempre dalla stessa educatrice, mentre non ha alcun bisogno di addestramento nelle attività di gioco, né di essere di continuo oggetto di effusioni consolatorie. Ha piuttosto l’esigenza vitale di sentirsi contenuto in una relazione privilegiata da cui ricevere indirettamente quel nutrimento d’amore che è essenziale per la sua crescita.
Il fulcro del lavoro si basa su un terzo elemento: lo sviluppo motorio totalmente libero a partire dalla posizione sulla schiena fino a camminare e correre in modo totalmente autonomo e diverso da un bambino all’altro. Al pari dei genitori, così le educatrici di Lóczy possono “co-creare” una vita psichica relazionale nel neonato, commenta Serge Lebovici nella prefazione: un grande insegnamento circa le modalità di formazione del personale che ha rivelato alla comunità degli studiosi come sia attuabile, anche in tanti Nidi, un’infanzia protagonista del proprio sviluppo.
Ecco un libro davvero importante per chiunque voglia realizzare luoghi di qualità per il rigore e la felicità delle proposte, a partire da un continuo lavoro di osservazione (I Parte), elaborare relazioni con i neonati appaganti per l’adulto come per il bambino (II Parte). La III considera invece lo stato di sofferenza dei neonati separati dai genitori, le gravi carenze esistenti in molte situazioni collettive o nelle situazioni di affido familiare con ricadute anche sulla maternalità. È stato rimproverato a Pikler di non essere partita da studi e annotazioni teoriche: questo testo è una straordinaria raccolta a posteriori di un’esperienza ancora tutta da approfondire e realizzare anche nel nostro paese.
(da Il Barrito del Mammut n. 8-9, estate 2010)
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Maria Zambrano, Per l’amore e per la libertà. Scritti sulla filosofia e sull’educazione
di Carmine Marmo
L’interesse per Maria Zambrano cresce man mano che passano gli anni. Filosofa spagnola, allieva di Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri, fu attiva nella Spagna repubblicana, fra le prime donne in Spagna ad intraprendere la carriera universitaria. Esule per gran parte della sua vita in Sudamerica, Italia, Francia e Svizzera, ha trascorso i suoi ultimi anni in Spagna, fino al 1991, data della sua morte. Il volume di cui parliamo non rappresenta la summa del suo pensiero, ma ne manifesta alcuni temi fondamentali, in particolare il legame fortissimo sentito dall’autrice fra riflessione filosofica e pratiche educative, così come fra filosofa e vita tout court. Pur non occupandosi programmaticamente e sistematicamente di pedagogia, la Zambrano ha sempre dato al suo pensiero una inclinazione pedagogica, concependo la filosofia come canale essenziale per il risveglio dell’individuo e per il miglioramento della società. Filosofia ed educazione vanno di pari passo.
In Per l’amore e per la libertà sono raccolti numerosi scritti: articoli comparsi su riviste, alcuni articoli inediti e due manoscritti, molto interessanti, che si occupano del ruolo mediatore del maestro. Il tutto, come in tutta l’opera dell’autrice, espressi in una forma desueta per la tradizione filosofica: più che un linguaggio sistematico la Zambrano ha sempre usato un linguaggio poetico, che lei ha ritenuto più capace di rendere pienamente conto del reale e dell’uomo come “creatura d’esperienza e non solo di storia”, fatto di ragione, mente e insieme, di corpo.
Questa scelta di fondo del suo pensiero si è tradotta nell’interesse di molti degli articoli del libro, che si centrano sulla fenomenologia del fare scuola ed educazione, sull’osservazione e sull’evocazione dell’aula, sui suoi silenzi e rumori, sull’attenzione e sull’arte di porre domande vive. È la testimonianza vivente della centralità del tema della vocazione, carattere principale proprio di qualsiasi maestro e carattere proprio della sua filosofia: vocazione intesa come piena realizzazione umana, finalità stessa della storia.
Perciò, il maestro ha da essere come una guida, deve esserlo tenendosi al bordo di quel mistero dell’essere di ciascuno che è la sua vocazione. L’educazione viene quindi a costruirsi come sviluppo integrale della persona, in tutti i suoi aspetti, per liberare gli esseri umani, per aiutarli a convertirsi in persona, nella libertà. Una libertà che deve ritrovare la sua essenza, senza limitarsi ad essere “libertà di”, ma per svolgersi nella sua pienezza.
Il processo educativo si presenta come un processo mediatore, un processo che non tiranneggia né opprime, ma che accoglie e rispetta le diverse forme di realizzazione personale, i differenti ritmi e tempi, senza interporsi né violentare le singolarità.
… il maestro è colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vivere, la realtà della vita vera. L’azione del maestro può essere chiamata (…) una conversione: si muta in attenzione l’iniziale resistenza che irrompe nelle aule. La domanda comincia a dispiegarsi. L’ignoranza risvegliata è ormai l’intelligenza in atto. E il maestro ha cessato di sentire la vertigine della distanza e quel deserto della cattedra come tutti i deserti, prodigo di tentazioni. Ignoranza e sapere circolano e si risvegliano nello stesso modo nel maestro e nell’alunno il quale, solo allora, comincia ad essere discepolo. Nasce il dialogo. (p. 119)
Maestro e alunno si rimandano immagini e condizione di ignoranza e di conoscenza, in una prospettiva co-educativa, anticipatrice di tante riflessioni sulle pratiche pedagogiche.
Il maestro mediatore e guida necessita di cura delle proprie qualità personali:
è proprio della guida non dichiarare il suo sapere, ma praticarlo e basta. Enuncia, ordina, talvolta indica solamente. Non trasmette una rivelazione… La sua trascendenza deriva solo dalla sua completezza … una guida offre prima di tutto … una certa musica, un ritmo o una melodia che colui che è guidato deve catturare seguendola. Chi riceve un cammino-guida bisogna che parta da sé, dallo stato in cui si trova, bisogna che si risvegli, prendendo coscienza.
Questa condizione ha bisogno di essere comunicata, dalla relazione educativa quotidiana alla relazione con i colleghi e gli interlocutori. Preliminari a qualsiasi comunicazione sono il silenzio o la solitudine, atteggiamenti che vengono prima della conoscenza e della vera comunicazione, attitudini che stanno sul frontespizio di un autentico apprendistato.
Il richiamo ad apprendere (altro non è l’apprendistato) è il messaggio fondamentale della asistematica, poetica, talvolta mistica, riflessione di Maria Zambrano.
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di Paolo Cacciolati
A 13 anni Matteo scopre che i grandi sono dei bambini andati a male e l’amore dei grandi puzza perché ha una scadenza come i surgelati, e perciò si isola nel suo cerchio magico con Maria.
Al liceo si innamora di Silvia che ride in un modo che lui chiama arancione perché faceva venire voglia di ridere anche a lui.
Tenero, delicato, elegiaco, sono gli aggettivi che più sono stati usati per questo libro di Aldo Nove. D’accordo, ma che c’entra la scuola?
C’entra, perché questo libro secondo me è l’archetipo, il campione più riuscito del piccolo mainstream letterario che definirei Compagno di scuola, compagno di niente, incorniciandolo con il testo della famosa canzone di Venditti. Un mainstream nostrano che annovera (pochi) capolavori come questo, libri sopravvalutati come Jack Frusciante è uscito dal gruppo e vari percolati cartacei di mocciana memoria.
E’ la scuola vista con la prospettiva dei ragazzi, la scuola che che da ambiente-contenitore si trasforma in contenuto di esperienze di crescita che non sono mai completamente bianche o nere, solo piacevoli o solo dolorose.
Amore mio infinito forse non è un romanzo “sulla” scuola, ma certamente nella scuola. Ma mi fermo qui, risparmio al testo certi simulacri di esegesi critica che su giornali e blog sempre più spesso assumono una funzione servile, e restituisco al libro semplicemente la dignità di un paio di estratti.
“Io sono arrivato il primo giorno fuori dalla scuola superiore c’era questo spettacolo ho visto ciellini paninari fascisti comunisti dark, tutti assieme ricompattati dal suono della campana dal rumore dei registri blu chiaro alle otto e dieci del mattino nelle classi chiuse a metà degli anni Ottanta per imparare l’aoristo l’ottativo mi sentivo un’isola che sfiorava le altre, e c’erano tutti contro tutti.”
“Quella mattina la professoressa stava spiegando Senofonte che non era tanto bravo diceva ma comunque importante era tutta una storia di un accampamento ricordo che nessuno l’ascoltava era una di quelle mattine in cui si tirano giù le saracinesche c’è questo accordo tra il professore e gli studenti ciascuno vive nel suo mondo non ci si disturba ameno che improvvisamente l’insegnante non dice adesso interroghiamo e c’è il terrore.”
“Allora pensavo che forse il criterio della cultura era l’antichità più le cose sono antiche più sono colte…”
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Aa. Vv., Pensieri sottobanco. La scuola raccontata alla mia gatta, a cura di Paolo Fasce e Domingo Paola
di Antonio Vigilante
Nel 2004 usciva per i tipi di Guanda La scuola raccontata al mio cane di Paola Mastrocola, un libro che, analizzando la crisi indubbia della scuola italiana, finiva per difendere un modello di scuola sostanzialmente retrivo, ispirato alla Tradizione (con la maiuscola), al presunto rigore della scuola di un tempo, che nulla sapeva di progetti, accoglienza eccetera. Per Mastrocola, la crisi della scuola italiana è tutta nella «decisione epocale» di caratterizzare la scuola come luogo in cui si impara a comunicare. Nella scuola, invece, non importa comunicare. A scuola si va per apprendere dal docente. Il quale non comunica, ma trasmette quel deposito di sane certezze che è, appunto, la Tradizione.
La distinzione tra trasmettere e comunicare è al centro della riflessione di Danilo Dolci. Per Dolci la scuola, come i mass-media, non comunica, ma fa semplice trasmissione, che è ciò che accade quando v’è un processo unidirezionale, il passaggio di un messaggio dall’emittente al destinatario, senza che quest’ultimo possa a sua volta parlare all’emittente. Nella trasmissione non c’è vero scambio umano: è il processo sterile dell’indottrinamento. È solo nella comunicazione, nello scambio circolare e reciproco, che si cresce, ci si arricchisce a vicenda, si fa autentica cultura.
Ed è fin dalla prefazione sotto il segno di Danilo Dolci questo libro scritto a più mani, con il quale un nutrito gruppo di docenti, spesso precari, risponde a Paola Mastrocola presentando una idea di scuola che vuole essere agli antipodi di quella auspicata nel suo libro, ma anche di quella che abbiamo e di quell’orrore – semplice non-scuola, probabilmente – che si sta prefigurando con quegli interventi di demolizione che si ha l’impudenza di definire riforma.
Le molteplici voci di questo libro si muovono tra questi due poli, tra l’ideale di una scuola che riconquisti il perduto rigore e quello di una scuola radicalmente altra, in cui si apprenda solo ciò che interessa realmente. Se da un lato si tenta concezione alta della scuola – «unica strada per la salvezza» per Alessandro Cavanna (p. 73), «una sorta di ‘chiesa laica’», uno dei pochissimi luoghi «in cui gli scambi avvengono sulla base del reciproco dono» per Emanuela Massa (pp. 86, 88) –, dall’altra c’è l’analisi disincantata di Maurizio Parodi, che si sofferma sulla vera e propria «follia» scolastica, sulla irrazionalità della sua struttura spazio-temporale, del sistema relazionale, del sapere che vi si trasmette, ed al quale la presenza di docenti che considerano ancora l’apprendimento come sacrificio appare come uno dei segni di «una scuola imbarbarita» (p. 95).
Nella molteplicità delle sue voci, questo libro sembra dimostrare che, se i conservatori convergono senza grandi difficoltà quando si parla di scuola (autorità o autorevolezza, trasmissione più che comunicazione, cinque in condotta eccetera), non è così a sinistra. E non è detto che sia un male.
Tra le tante voci, pare persuasiva quella di Domingo Paola, che invita a prestare attenzione più agli aspetti semantici che a quelli ortografici della scuola (p. 49). Il che vuol dire in concreto «realizzare in classe una piccola comunità di ricerca che avvii gradualmente al significato e alla funzione del sapere teorico» (p. 50). È questa la via verso una scuola significativa, con il correttivo ulteriore, però, di ridefinire democraticamente gli ambiti di ricerca, andando oltre il recinto chiuso della cultura delle classi dominanti ed aprendosi alle pratiche del corpo e della mano, al fare oltre che al conoscere. È appena il caso di notare che si tratta di una via difficile, che richiede un ripensamento anche degli spazi scolastici (può essere adeguata l’aula ad una comunità di ricerca? e i banchi?).
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Luigi Meneghello, Fiori italiani
di Lucia Tosi
Luigi Meneghello ha parlato quasi sempre di scuola nei suoi libri, da una parte all’altra della barricata: memorie di scolaro, di liceale, di universitario e memorie di docente. Ma da questo lato della strada sembra non si sia sentito totalmente a suo agio se, ancora ne Il dispatrio (1993), “questa specie di Libera nos da Reading”, come recita la dedica sul frontespizio della copia che mi regalò nel 2001, il ricordo dello shock con la lingua e la cultura inglese è raccontato da un ormai affermato scrittore e apprezzato docente di Letteratura italiana che si rivede giovane e meno giovane insegnante che non insegna, ma impara. Di scuola parla nel celeberrimo Libera nos a Malo (1963), dalle prime classi (prima seconda e terza)
incastrate a intaglio: la prima in strati paralleli come una costa di mare davanti alla maestra; le dune e le roccette della seconda sotto le finestre, si articolavano all’interno in una plica di banchi centrali; in fondo i contrafforti della terza. Ai piedi della lavagna c’era la strisciolina sabbiosa della primetta, dove soggiornavano i piccoli non ancora maturi per la prima, gli “osservatori” che osservavano con aria spaventata
all’università, epoca, questa, che ritornerà ne I piccoli maestri (1964) sottoforma dell’esperienza della lotta partigiana. In Libera nos le ore di scuola sono attraversate dall’insegnamento permeante e misterioso della religione cattolica: senza soluzione di continuità le lezioni della maestra Prospera si alternano agli insegnamenti di don Tarcisio, poi insegnante in quarta e quinta, alla confessione degli “atinpuri” (atti impuri), alla riflessione sul dolore-perfetto e su quello imperfetto: all’età di sette, otto anni.
Il libro dedicato più nettamente alla scuola è però Fiori italiani (1976) che esordisce proprio con la domanda “Che cos’è un’educazione?”. Si tratta dell’educazione di S.: studente, Meneghello stesso, ma anche ogni studente cresciuto alle scuole dell’era fascista. Il titolo, dice l’autore, gli venne da una conferenza a Reading il cui tema era la education:
Alla fine si alzò tra l’uditorio un ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori” disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire.” S. si portò a casa la teoria dei fiori in vaso e ci pensò su qualche anno.
Pensa che ti ripensa viene fuori Fiori italiani, che riprende da Il balilla Vittorio, libro per la quinta elementare (già ricordato in una gustosa scenetta in Libera nos), 9 lire, compilato da “un propagandista coi piedi per terra”, Roberto Forges Davanzati per arrivare, attraverso gli anni del ginnasio e del liceo, fino all’università e l’incontro con Antonio Giuriolo, capitano Toni, che guidò la formazione partigiana universitaria dei “piccoli maestri”.
Non è un libro facile, Meneghello non è facile: ma è divertente, curioso e denso. Nel racconto si susseguono episodi, alcuni dei quali esilaranti, specie quelli legati all’epoca del ginnasietto e del ginnasio su cui dominano, vicino o lontano, il fascismo e lo scoglio della cultura italiana, ufficiale, antagonista del dialetto con il quale, al contrario, Meneghello non ha mai finito di misurarsi. Oggi, che s’usa dare di quei compiti forniti di dossier dal quale i nostri S. devono trarre un articolo o un saggio, simulando d’essere dei giornalisti, dei recensori, degli organizzatori di mostre (eventi, si dice) può tornare utile confrontarsi con un passato in cui tutto si chiedeva allo scolaro, fuorché di scrivere giornalisticamente:
Gigi, che poi diventò un giornalista famoso, era già giornalista a scuola. Scriveva su Enea, non le solite scipitaggini sulla malinconia di avere un destino, anzi con l’aria di un inviato speciale al seguito di quella casinistica crociera: descriveva il cappello da lupo di mare del capitano al timone, le sue spalle curve sotto gli scrosci; intervistava Acate, Palinuro… [...] S. assisteva perplesso. Aveva anche lui un suo oscuro compito non canonico su Enea, ma non gli pareva possibile nonché scriverlo in classe, neanche metterlo in parole. La pioggia improvvisa, la corsa alla grotta, la donna tutta bagnata che sorride, Enea che la guarda impensierito, umido, gentile. E tutto a un tratto le mostra la tega! La grande tega troiana!
*
di Giorgio Morale
La scuola agra di Giovanna Lo Presti è un pamphlet conciso e preciso nella scrittura e perentorio e apodittico nell’argomentazione, sostenuto da concetti forti e preziose citazioni. Bersaglio polemico sono le idee che hanno ispirato le politiche governative sulla scuola dalla fine degli anni Ottanta a oggi. Politiche che hanno accomunato centro-destra e centro-sinistra, quasi fosse scritta nello spirito del tempo la linea che si può riassumere nella parola d’ordine della “modernizzazione”.
“La modernità decreta la nascita di una falsa democrazia la quale, a sua volta, si accompagna ad una ‘estensione’ alle masse di un sapere superficiale e svilito”.
Punta di diamante della “modernizzazione” a scuola è la sua “aziendalizzazione”, di cui non a caso uno dei primi sostenitori è stato quel Giancarlo Lombardi passato dalla Confindustria al Ministero della Pubblica Istruzione. Tracce di tale tendenza sono dappertutto, basta analizzare gli spostamenti progressivi del linguaggio, per cui gli studenti sono diventati utenti, l’insufficienza debito, le positività credito, il preside dirigente/manager, i suoi collaboratori lo staff.
Ne consegue una ventata di economicismo, tecnicismo e burocratizzazione che attraversa il sistema scolastico. “Ridurre tutto a quantità, costruire statistiche, misurare risultati… ecco alcune idee fisse della cosiddetta ‘scuola dell’innovazione‘”.
Tale pessimismo si aggancia al pensiero forte dei precursori della critica del moderno, Leopardi, Baudelaire, Nietzsche. Mentre la genealogia più recente di alcuni mali odierni viene fatta partire dagli anni Sessanta e dalla contestazione del nozionismo e del principio di autorità in nome dell’apertura al mondo esterno: anch’essa assorbita dalla società della tecnologia avanzata che degrada i cittadini a consumatori. Difatti un altro esito della “modernizzazione” è stato l’affermazione della necessità del collegamento dell’istruzione con il mondo del lavoro, conclusasi con la subordinazione dell’istruzione al mercato del lavoro.
Lo svilimento del sapere appare in tutta la sua drammaticità se illuminato da un brano di Gramsci che a posteriori appare veramente profetico:
“Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione di vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi”.
E’ in questa luce che dobbiamo leggere la più motivata opposizione alle “innovazioni” della “riforma Gelmini”, fatta a parole di merito e disciplina, che richiedono un docente precario, servo e bastonatore; nei fatti di tagli all’istruzione e ai saperi che snaturano e dequalificano la scuola della Costituzione, creando il pretesto per aprire la strada alla sua privatizzazione: così agisce un capitalismo straccione che arraffa dove può, ignorante persino dello storico binomio istruzione-sviluppo.
Ma l’analisi lucida e ironica dei mali della scuola e della società non impedisce a Giovanna Lo Presti di concludere con un atto d’amore nei confronti della scuola e di ricordare, con Steiner, che “l’essenza dell’umano sta nella possibilità di immaginare un tempo futuro ed anche nel ritenere che i fatti, per quanto negativi, non siano mai un argomento sufficiente contro la speranza”.
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Frank Mc Court, Ehi, prof!
di Lucia Tosi
“Dovrebbero dare una medaglia a chi scampa a un’infanzia infelice e poi finisce a fare l’insegnante, e io dovrei essere il primo a riceverla, quella e tutti i nastri che ci si possono appendere per i patimenti successivi”.
Frank McCourt (1930-2009) ha fatto per trent’anni l’insegnante in cinque scuole pubbliche e in un’università di New York: 30.000 ore di lezione, tenne a precisare, di giorno, di sera, ai corsi estivi; partito svantaggiato (irlandese di Limerick, cattolico), per tutti quegli anni si è chiesto se quella era la sua strada. Sì e no. No, perché si è rivelato un ottimo scrittore, segno che forse avrebbe potuto cominciare a scrivere (cosa che desiderava moltissimo) prima dei sessantasei anni, sì perché, a chi gli chiedeva come mai avesse atteso tanto per pubblicare il suo primo straordinario libro (Le ceneri di Angela, che gli valse il Pulitzer e altri riconoscimenti, pubblicato in Italia nel 1997 da Adelphi, diventato film per la regia di Alan Parker), rispondeva: Insegnavo!
Ecco, uno che ritiene di non avere tempo sufficiente per scrivere, se fa l’insegnante, è insieme un bravo scrittore e un bravo insegnante. Per scrivere ci vuole molta dedizione e molto tempo, per insegnare (bene) molto di più dell’una e dell’altro.
Ehi, prof! racconta, con umorismo tutto irlandese, quei trent’anni di tentennamenti, di frustrazioni, di errori tattici, con i ragazzi e con i superiori, di un prof. assalito talora dalla sensazione di essere, sotto sotto, un cialtrone, ma anche di successi insperati, come quello di riuscire a far scrivere con entusiasmo degli alunni di una scuola professionale, “crogiolo di razze e culture [...] campionario di ragazzi provenienti da tutti e cinque i continenti”, proponendo dei compiti originali, a volte suscitati da un episodio curioso capitato lì per lì: una giustificazione (troppo creativa per essere vera) suggerisce di inventare giustificazioni per personaggi celebri, Adamo ed Eva, Al Capone; uno squisito marzapane fatto da uno studente scatena la caccia alla ricetta, che va declamata con espressività, o cantata con accompagnamento musicale.
“Niente Milton né Swift né Hawthorne né Melville [...] Magari potresti trovare un modo per divertirti un po’ meno [...] Ai teenager in crisi potresti infliggere il Beowulf e le Cronache anglosassoni”.
A proposito delle ricette in luogo della grande letteratura anglosassone, il docente di scrittura creativa Frank Mc Court, abituato dalla sua terribile educazione cattolica (e irlandese) a farsi regolarmente l’esamino di coscienza, si pone la domanda delle domande: “La scuola in fin dei conti a che serve? Ditemi voi: il compito di un insegnante è fornire materiale all’apparato militar-industriale? Stiamo confezionando colli per la catena di montaggio delle grandi aziende?”. Ehi, prof! c’è da meditare, e da ridere: che non guasta.
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Adam Haslett, Union Atlantic
di Alessandro Cartoni
Intenso romanzo di Adam Haslett, finalista al Premio Pulitzer 2003 con la raccolta di racconti Il principio del dolore, Union Atlantic (trad. italiana 2010), Union Atlantic ha la rara capacità di ritrarre la nostra epoca mettendo a confronto due personaggi, o meglio due forme mentali, che costituiscono in se stesse, le due radici dell’America moderna: l’individualismo aggressivo, colmo di cinismo, del nuovo pioniere arricchito, e il vitalismo colto e disobbediente del vecchio umanista radicato nei valori della democrazia e dell’Illuminismo.
Haslett ripercorre magistralmente i primi dieci anni del nuovo secolo conducendoci all’interno di quei meccanismi economici e finanziari che ci hanno portato alla crisi globale del 2008. Tuttavia l’opera è qualcosa di più di una testimonianza di quella che è stata definita “la letteratura della recessione”, e non può nemmeno essere confinata entro i limiti del “romanzo gay”, il suo potenziale critico e pedagogico indica la via di un’interpretazione della realtà che oggi, nelle forme dell’imbarbarimento contemporaneo, si fa sempre più necessaria.
Charlotte Graves, la protagonista, è un’ insegnante di storia in pensione che ha deciso di citare in tribunale, il suo giovane vicino e manager rampante della “Union Atlantic”, Doug Fanning, per aver costruito la sua casa faraonica (con surplus di sbancamenti e deforestazioni), pare, su un terreno demaniale, a due passi da casa sua.
Nella lotta tra i due e tra i mondi che i due rappresentano si gioca la partita del futuro. Il libro sembra lanciare domande non più rinviabili: quale tipo umano dovremo aspettarci dai prossimi anni? Chi vincerà la partita tra l’essere e l’avere? Sarà possibile nelle democrazie fragili che stiamo costruendo rivendicare un principio di cittadinanza alternativo all’economicismo trionfante?
La posta in gioco di questo dissidio è ovviamente la coscienza dei giovani, incarnata dal terzo protagonista il giovane Nate che è innamorato di Doug ma segue attento le “ripetizioni” storico-filosofiche di Charlotte. E’ nei dialoghi tra i due o nei lunghi monologhi interiori della vecchia insegnante che si svela la preoccupazione pedagogica dell’autore e quella che potremmo chiamare la sua “ansia umanistica”.
«Anno dopo anno gli studenti di Charlotte erano sempre più sconcertati dal suo accanimento, dall’insistenza con cui li esortava a considerare le circostanze della propria vita in una prospettiva storica. Nella collettiva, bovina indifferenza, c’era pur sempre stato qualcuno disposto a considerare l’ipotesi che il mondo non fosse soltanto un giocattolo a sua disposizione»
Infine, sembra dirci Haslett, è tra memoria e oblio, tra responsabilità e cinismo che si gioca la partita di domani. E anche se la narrazione non ha, e non potrebbe avere, esiti conciliati, la lezione implacabile del libro resta in queste parole intense di Charlotte: «La gente paga per quel che fa, aveva scritto Baldwin, e paga per quel che ha permesso a se stessa di diventare. E lo fa semplicemente, con la vita che conduce»
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Emanuele Marfisi, Diario di classe
di Giuseppe Panella
«Nessuno può sapere cosa ti riserva il destino: puoi nascere in Svezia oppure in Ruanda. Noi, gli alunni della quinta D, eravamo nati a Imola, nel palazzo Rosso del comprensorio residenziale Arcella; una buona via di mezzo tra la Svezia e il Ruanda. Don Walter, che aveva un rapporto privilegiato con il Padreterno, non lo chiamava destino. “E’ il disegno di nostro Signore, solo Lui lo conosce” sentenziava sicuro. Poi, con l’ottimismo che contrassegnava il suo carattere, mi ammoniva: “Devi fare il bravo, così un domani potrai assicurarti un posto in Paradiso”. Nel frattempo il Padreterno mi aveva disegnato un posto nella tribuna più alta del paesone: l’ultimo piano del palazzo Rosso. Nelle giornate migliori, sporgendomi dalla finestra con il mio orsacchiotto Paolo, era un po’ come stare in prima fila in Paradiso. In effetti, da lassù, mi sentivo come nostro Signore: potevo osservare e controllare tutto, senza dover rimettere i peccati e disegnare le vite di nessuno. Possedevo però un invidiabile vantaggio nei confronti di Gesù Cristo: contemplavo il mondo seduto comodamente nel terrazzo della camera e non appeso a una croce, di fianco al Presidente Pertini, sul muro di una classe elementare» (p. 7).
E’ questo il poderoso incipit del romanzo d’esordio di Emanuele Marfisi, Bildungsroman sui generis e impietosa riflessione (tra il socio-antropologico e il satirico spinto) sul mondo della scuola vista come uno spaccato significativo e sconfortante di ciò che è diventata la società italiana (e quello che è divenuta non è ancora nulla rispetto a quello che probabilmente diventerà).
Un paese senza – lo aveva definito Arbasino nel 1980 e ribadito nella ristampa del 1990; un paese descritto oggi, nel romanzo di Marfisi, maestro a Imola, nella civilissima Romagna ancora “rossa”, con tutti i problemi sociali e strutturali che affiorano nel e dal presente: razzismo, arroganza, stupidità congenita legata al ruolo sociale, arrivismo, mancanza di ideali e di prospettive squadernati laddove è più facile che abbiano effetti devastanti e cioè nelle menti dei più giovani e più soggetti alla pressione congiunta dei genitori e delle televisioni commerciali.
Il protagonista del libro, Michele Marchesi, ha una serie cospicua di aspirazioni nella vita: trovare una rara figurina dell’album Panini dei calciatori (il mediocre Luvanor Donizete Borges, calciatore brasiliano che trepestava nelle file del Catania nella stagione 1983-1984, anno in cui la squadra etnea andò con la velocità del lampo in serie B!); comprarsi uno di quei mitici occhiali a raggio X che permettono di vedere come sono fatte le ragazze sotto i vestiti (tutti gli albi a fumetti erano pieni di queste inserzioni, come pure quelle delle creme per far crescere i peli sul petto); conoscere il porno-attore italo-francese Gabriel Pontello, eroe di innumerevoli porno-fumetti fotografici e di Supersex, un film entrato nella storia del trash (il suo grido “Ifix tchen tchen” celebrato dai fruitori della sua opera è entrato nell’immaginario collettivo tanto che Elio e le storie tese lo utilizzano in una loro canzone “trasgressiva”) e, infine, vedere di persona Sandro Pertini, all’epoca presidente della Repubblica Italiana.
Solo quest’ultimo desiderio gli sarà consentito soddisfarlo grazie alla mediazione del suo maestro elementare Gamberini, fanatico socialista craxiano che crede nell’avvenire del pentapartito e assegna ai suoi allievi compiti a casa sulla struttura politica italiana che il protagonista crede di poter condurre bene in porto facendosi aiutare dal nonno ex-fascista e sostenitore del MSI-Destra Nazionale.
Nonostante una certa volontà di trasformarlo in una fonte di facile comicità, Gamberini è figura non priva di una qual fosca grandezza: timido corteggiatore della staffetta partigiana Delfina durante la Resistenza (e per questo la ragazza gli preferirà il comunista Landò della Brigata Garibaldi), nel bel mezzo della lettura (prescrittagli per gli esami di Magistero) del Libro V dell’Emilio di Jean-Jacques Rousseau dove è delineata la figura di Sofia, la compagnia ideale per il protagonista del trattato pedagogico, avrà l’illuminazione della sua vita e partirà, di punto in bianco, per andare a conoscere il mondo. Solo che quest’ultimo (come per il Totò di una celebre scenetta cinematografica) si esaurirà a Cuneo – da cui, nonostante l’esito positivo di una sua fugace conquista amorosa, se ne tornerà a Imola a fare il maestro elementare.
Ai suoi studenti cercherà di installare il dubbio come ragione di vita (“Il dubbio è l’inizio della sapienza” – scriveva sempre alla lavagna il primo giorno di scuola) e il protagonista del romanzo, a sua volta divenuto maestro elementare nella stessa scuola “Cappuccini” dove aveva studiato da bambino, proverà a fare lo stesso. Gli esiti non saranno certo positivi e così pure i suoi tentativi di pedagogia ispirata alla scuola di Barbiana di don Milani non saranno accolti favorevolmente dai suoi colleghi (soprattutto le maestre rimaste più tradizionaliste).
Il romanzo – come si è potuto vedere – si muove su due piani paralleli: la vicenda scolastica attuale di Michele Marchesi maestro elementare di oggi e la storia delle sue vicende scolastiche e adolescenziali riviste in flashback alla luce di quello che gli accade nel presente (anche se poi di quest’ultimo verremo a sapere molto meno di quello che traspare nelle pagine dedicate alla sua formazione – delle angoscie sessuali del piccolo Michele e della sua fissazione per le “ascelle” già fiorite di Elena Farolfi sapremo tutto, dell’uomo maturo invece non ci viene detto nulla).
Quello che appare maggiormente rilevante nel quadro generale della narrazione sono i personaggi: il nonno Palmiro, rimasto fascista e frequentatore accanito della Società Bocciofila dove imperversa come giocatore di briscola; la nonna Norina che ambisce a una serenità e a un decoro piccolo-borghese e che salva il marito dalla morte ogni volta che quest’ultimo è vittima delle sue crisi di ipocondria con il cucinargli enormi quantità di gramigna, pasta asciutta assai apprezzata in Emilia-Romagna: il bidello Alan Tassinari, ex-cantante del gruppo heavy metal “Gli uccelli dritti”, e meglio conosciuto come Porca Madoska da un suo prezioso intercalare continuo; i suoi vecchi compagni di scuola, tutti abitanti del Palazzo Rosso nel comprensorio residenziale Arcella delle case popolari di Imola.
Tra questi ultimi, spiccano alcuni per il loro bizzarro comportamento: Athos Prigionieri detto il Tamugnez (nome ripreso in un blog ancora molto attivo nel web) la cui aspirazione nella vita è riconducibile all’avere “un posto fisso e una passera qualsiasi” (e il frutto di queste sue aspirazioni esistenziali sarà poi una bambina allieva nella classe del protagonista, apparentemente adorabile ma feroce e razzista negli atteggiamenti esibiti); Elena Farolfi maturata precocemente; i due gemelli (di cui il primo detto il gemellane) che passano la vita alla Bocciofila insieme al nonno del protagonista e si nutrono di indicibili schifezze come il panino Formula Uno dall’altissimo tasso di polistirolo; la Cianaza, aspirante calciatore di livello mondiale e proprietario di una vasta collezione di giornaletti pornografici tra cui il già apprezzato Supersex con le imprese di Gabriel Pontello) e, venendo invece allo stretto ambito del presente, lo scolaro emarginato Mohamed Fathallah destinato a una prematura bocciatura dalle fanatiche sostenitrici di una rigorosa meritocrazia e autore di una poesia sulla luna che vincerà, a sorpresa, una borsa di studio di 400 euro, il premio del concorso per alunni della scuola elementare messo in palio dal Lions Club di Imola.
Sono tutte figure che si affastellano nelle pagine di Marfisi (quasi fossero i protagonisti di un film di Pupi Avati ambientato negli anni Cinquanta o Sessanta) con un piglio e una prepotenza che li fanno spiccare su uno sfondo – quello della scuola “Cappuccini”, quello del Palazzo Rosso del condominio Arcella – altrimenti grigio e demotivato, devastato dall’incuria e dalla noia, abbandonato ormai a se stesso senza remissione. Il climax del libro è, tuttavia, l’incontro tra Michele e Sandro Pertini con la sua pipa fumigante in mano, un momento atteso dal ragazzino come un evento salvifico che si imprimerà con forza nella sua mente:
«Tornai con lo sguardo sul Presidente; non era molto diverso dalla foto in classe. Era solo un po’ invecchiato. Pensai che era la prima volta che lo vedevo senza nostro Signore Gesù Cristo. Credevo fossero una coppia inseparabile; mi sbagliavo. […] Credo che gli apostoli guardassero Gesù come io guardavo Pertini. Quante volte lo avevo pregato; quante volte mi ero affidato a lui; quante volte era stato nei pensieri miei e del mio orsacchiotto Paolo. E ora era lì, davanti a me, a Imola, nel capannone delle municipalizzate. Quel capannone nella cui direzione, dall’alto della mia postazione nel Regno dei Cieli, vedevo pedalare l’operaio di via Fontanelle. Già, l’operaio di via Fontanelle, mentre io ero qui a riscrivere la Storia, lui era in fabbrica a tagliare lamiera. Dovevo parlarne al Presidente di quel pover’uomo» (pp. 196-197).
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Richard Yates, Una buona scuola
di Giulio Vannucci
Con A Good School, uscito negli Stati Uniti nel 1978, e pubblicato in Italia nel 2009 da Minimum Fax, Yates racconta la propria adolescenza e la propria formazione in un College nel Connecticut dei primi anni Quaranta. Ma Una buona scuola non è una vera autobiografia: William Grove, alter-ego dello scrittore, non è l’unico protagonista, e Yates concentra spesso il suo sguardo attento sulla folla di personaggi (giovani e non) che popolano la “Dorset Academy”, persi nelle piccolezze e nelle miserie della famiglia americana media.
Quasi tutte le storie che si intrecciano in Una buona scuola seguono una parabola negativa, che porta (con pochissime eccezioni) alla disillusione di ogni aspettativa e allo sfacelo di ogni (se pur misera) aspirazione: John Haskell, studente più grande per cui William stravede, viene allontanato dalla scuola per crisi di nervi e manie di grandezza, Terry Flinn, ammirato da tutti per il suo fisico e le sue doti sportive, si scopre incapace di leggere e scrivere (dislessico, diremmo oggi), e l’unica storia d’amore tra studenti che Yates racconta da vicino, con un occhio all’entusiasmo dei primi baci e dei primi rapporti sessuali, termina con la morte di Larry Gaines, imbarcatosi su una nave mercantile dietro a vaghi sogni di libertà e di fuga. Poi la fine della scuola (che chiude per mancanza di fondi) e soprattutto la guerra, i cui echi giungono sempre più vicini alla “Dorset”.
Tra le poche storie a cui Yates concede un possibile riscatto, c’è quella del protagonista, William Grove, “male in arnese”, “sfigato cronico” deriso da tutti i coetanei. Quello che alla fine salva Bill dal sentirsi inadeguato rispetto al mondo che lo circonda, è scoprire le proprie passioni e riuscire ad investire su di esse. Alla paura delle continue umiliazioni, al non sapere “come arrivare alla fine dei propri giorni”, Bill reagisce buttandosi nel giornalino della scuola, dove trova il suo parziale riscatto: se non diventerà mai una celebrità scolastica, come quelle ammirate e considerate irraggiungibili (anche se continuamente “smontate” da Yates), scoprirà la sua vocazione che, oltre a dargli un ruolo, lo renderà persino capace di suscitare l’interesse di qualche ragazza.
Yates, che in tutto il romanzo tenta di dimostrare come nella “Dorset” non ci sia niente di “buono” e di speciale (con tanto di epifania negativa finale della fondatrice dell’istituto), si ricrede alla fine, proprio nell’ultimo momento di confronto con il padre, morto da molti anni. Quel padre (con cui Una buona scuola si apre e si chiude, punto di riferimento e termine di paragone costante – che lo si voglia o no) che ha rinunciato al canto lirico per diventare un impiegato della General Elettric, che ha fatto un passo indietro al momento della possibile scelta. E che, in fin dei conti, non ha avuto un contesto possibile (come invece è stata per suo figlio la “Dorset”, malgrado tutti i suoi limiti) in cui trovare la propria vocazione e far crescere le proprie passioni, in cerca della propria strada, anche se traballante e insicura.
(da Gli asini n.1, luglio/agosto 2010)
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Sefedin Fetiu, Il tempo del risveglio
di Michele Lupo
Il romanzo di Sefedin Fetiu, Il tempo del risveglio (Stilo, pp. 126, euro 10) è un buon libro per tornare a pensare il valore insieme della scuola, dei libri e quello dell’esempio etico che è a carico di ogni insegnante che non voglia mettere a repentaglio il suo magistero con un comportamento contraddittorio rispetto ai nobili principi che enuncia.
Il narratore Skender Dukagjini, figura autobiografica dello scrittore kossovaro Sefedin Fetiu, ricostruisce il clima terribile che dovette soffrire l’etnia albanese sotto la dittatura di Tito in quella che per alcuni decenni si chiamò Jugoslavia. Recupera con un tono volta a volta elegiaco o drammatico gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza costretti sotto il giogo cupo e duro del regime per nulla intenzionato ad ascoltare le rivendicazioni autonomiste del Kossovo.
La centralità assunta in questo libro – al netto degli specifici contenuti storici e geopolitici – dalla letteratura e dal suo insegnamento in relazione agli esempi di vita concreti di coloro che ne proclamano l’esemplarità valoriale, in un contesto certo edificante ma non privo di stimoli, dà al romanzo il carattere di una storia di formazione: che è storia di resistenza, in cui azione e cultura cercano un punto d’intersezione che dia senso a entrambe.
Gli insegnanti che di fronte al fanciullo Skender si pregiano di figurare come maestri, nel momento in cui indicano nella letteratura un modello di libertà, di immaginazione, sono costretti alla prova ben più dura della testimonianza fattuale, dell’azione: dando l’esempio di una risposta concreta alla tirannide, assumendo in prima persona l’onere dell’opposizione. Non tutti ce la fanno: l’idealismo si paga, ma tanto più la libertà dei libri per la quale gli insegnanti liceali e gli amici di Skender si entusiasmano, trova un senso nella scelta coraggiosa di combattere effettivamente per essa.
Il tempo del risveglio si fa leggere anche per una certa premura descrittiva che rende bene il mondo non privo di tratti patriarcali di quelle terre, comprese le feroci e improvvise esplosioni di violenza che a partire da un immaginario forse superficiale ci attendiamo quando si tratta di Balani (sarà per quello che sfuggiamo a quella parte di mondo, a due ore di scafo da noi, per un inconfessato senso di superiorità per quei disgraziati persi nei loro atavici conflitti? per l’orrore che gli italiani provano ormai per la povertà? è una rimozione fastidiata per le sorti di cristi più poveri di noi?).
Eppure, i lettori italiani, gli insegnanti in particolare, potrebbero trovare qui non solo i tratti in corpore vili di cosa voglia dire una scuola che insegna in un contesto difficilissimo, ma anche un’esercitazione contingente, l’omologo di una questione che di questi tempi dovrebbe essere centralissima e la politica e i media si guardano bene invece dal marcare: il Risorgimento. Leggere per credere.
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di Marina Massenz
Psicomotricità a scuola è in primo luogo un racconto, che manifesta la passione e l’amore che l’autrice nutre da molto tempo per uno dei campi di azione più interessanti dell’intervento psicomotorio: la dimensione preventiva ed educativa nella prima infanzia.
Un libro su come si costruiscono e si realizzano nel tempo quelle che in certe occasioni vengono definite ”buone prassi”.
Le pagine raccontano di un’esperienza che caratterizza in modo pregnante l’offerta di pratica psicomotoria educativa del Comune di Bologna, realizzata in parallelo ad esperienze simili proposte in altre città italiane, soprattutto a partire dalla legge 285 del 1997, che ha permesso di inquadrare e stabilizzare in progetti a lungo termine quel prezioso bagaglio di professionalità che gli psicomotricisti italiani hanno accumulato in oltre trenta anni di lavoro nelle istituzioni.
Il testo, partendo da una definizione del contesto di intervento, procede verso una descrizione accurata delle modalità e delle procedure relative all’esperienza maturata, con l’intenzione di individuare i passaggi chiave del lavoro, in funzione di una fruizione semplice ed efficace da parte sia del lettore esperto, ma anche di chi risulta curioso di conoscere e approfondire la proposta psicomotoria.
Trovo particolarmente rilevante, nello sforzo dell’autrice, il grosso spazio che viene concesso ad una lunga riflessione sulla dimensione gruppale in pratica psicomotoria educativa.
La cooperazione, la conoscenza reciproca, la capacità di gestire e risolvere conflitti non sono processi che si sviluppano facilmente né sempre con le stesse modalità; la presenza di laboratori di psicomotricità all’interno dei nidi, delle scuole dell’infanzia e delle scuole primarie può essere considerato come uno spazio che, attraverso il gioco, pone l’attenzione sulla corporeità, sui ritmi di crescita dei singoli bambini, sull’identificazione precoce dei segnali di disagio psichico.
L’ambito psicomotorio può così divenire un luogo importante per facilitare la crescita delle singole identità, ma anche per costruire il senso di appartenenza ad una comunità; da qui ha inizio la formazione di persone capaci di gestire con serenità fenomeni come l’accettazione della diversità, la convivenza pacifica, il rispetto del punto di vista e dei valori dell’altro, senza cadere nella trappola delle fobie indotte da una società che tende all’omologazione e allo spegnimento della diversità come valore.
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Nora K. e Vittorio Hosle, Aristotele e il dinosauro, la filosofia spiegata a una ragazzina
di Sebastiano Aglieco
E’ un bellissimo classico sulla divulgazione dell’idea del “pensare” come attitudine non specialistica – anche i bambini pensano, insomma.
Il libro ha la forma di una corrispondenza tra un filosofo e una bambina di undici anni. “La bambina vuole conoscere, capire, sapere, e con il candore cocciuto tipico della sua età, costringe l’adulto a riportare in terra la filosofia e a rispondere con semplicità e rigore ad alcuni grandi temi: il linguaggio e le cose, l’esistenza di Dio, l’infinitezza dell’universo, il libero arbitrio, il rapporto tra realtà e segno, l’eternità dell’anima” (dalla quarta di copertina).
Un esempio di come si possa, e si debba, a partire dalla scuola primaria, pensare a un curriculum per la formazione di un pensiero del bambino come esercizio a porsi domande sul mondo, su se stessi, sugli altri. Che è poi il modo meno astratto che possiamo immaginare per l’esercizio della propria libertà.
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Noëlle De Smet, In classe come al fronte
di Federica Lucchesini
Alla fine della sua carriera di insegnante Noëlle De Smet ha raccolto una trentina di articoli scritti per diverse riviste pedagogiche in decenni di infaticabile servizio nelle scuole professionali di Bruxelles. I pezzi raccolti (e tradotti in italiano da Quodlibet con il titolo In classe come al fronte) vanno dal 1984 al 2005 e messi uno in fila all’altro tracciano il percorso di apprendimento e di studio di un’insegnate appassionata, ispirata dai metodi di Freinet, della pedagogia istituzionale di Fernand Oury e dalla teoria psicoanalitica di Lacan. Ma non si tratta di un libro di teoria. È un libro sulla scuola dove le parole delle ragazze e dei ragazzi sono raccolte e offerte con grande umiltà e attenzione e dove con notevole modestia si narrano le sperimentazioni didattiche delle classi con cui Noëlle ha vissuto.
Ci si chiede sempre: cosa accade davvero nelle aule? Come trasmettere cultura in mezzo a queste trasformazioni violente? come stare meglio dentro le aule? Gli aneddoti, i ritratti, gli episodi narrati sono coinvolgenti per la freschezza e l’autenticità della rappresentazione. Ci si immagina tutto: i conflitti, le ambientazioni, i protagonisti. E nel frattempo si imparano metodi che se non sono replicabili (perché ogni insegnante, ogni alunna, ogni classe sono irripetibili), nascono però da una ricerca condivisa e da un’ispirazione condivisibile.
La banlieue di Bruxelles dove la De Smet ha lavorato è da decenni meta di fortissima immigrazione. Le sue alunne sono marocchine, italiane, angolane ecc., tutte naturalmente candidate alla scuola professionale e allo “scacco” scolastico. Nelle aule sputano, strappano, gridano, insultano. Se si ha presente la situazione di molti istituti professionali delle periferie italiane e anche di tante provincie, si ritroveranno storie, vissuti, condizioni simili e stesse problematiche, procedure di stigmatizzazione ed esclusione sociale.
Le invenzioni e le sperimentazioni che la De Smet mette in atto e che perfeziona grazie alla formazione e cooperazione continue all’interno di un movimento di educazione attiva composito e internazionale (che si intuisce sullo sfondo) le permettono di non prescindere mai dalla necessità di collocare le ragazze nel loro qui e ora, nel fatto di essere in Belgio e belghe, ma di esserlo variamente. Anche intercultura è una parola che non vale più la pena di usare. De Smet si occupa di un’altra cosa, del condividere e creare sapere all’interno della scuola con soggetti necessariamente imposti come deboli:
«devo portare avanti un lavoro di liberazione con dei giovani che sono oppressi almeno quattro volte. Come figli di operai, come figli di immigrati, come allievi, come allievi di professionale (quando è nota la gerarchizzazione degli orientamenti) e, per una parte, come ragazze. Quando metto in moto i Conseils d’élèves, dei dispositivi che permettano agli oppressi di prendere la parola, quando organizzo la lezione di francese a partire dagli interessi dei miei allievi, quando cerco di attrezzarli nel migliore dei modi, io faccio qualcosa che non è solo pedagogia. Faccio politica, nel senso forte del termine, quello che contiene l’idea di un progetto di società visto nella sua globalità…».
Narrazioni di vicende scolastiche dove la teoria si deduce dalla forza della sperimentazione narrata Un sentiero personale in un “impossibile” (da la frase di Freud sulle professioni impossibili: governare, educare, psicoanalizzare a cui Lacan aggiunge far desiderare) che alla lettura appassiona più di tanti libri sulla scuola in cui in realtà il primum è la scrittura e gli adulti il tema.
E intanto soccorrono idee e spunti. Sfogliando il libro si incontrano: un giornale di classe a partire dalle ragazzine rappresentate sui giornaletti; un anno di lezione sulla questione: possiamo attaccare i nostri poster alle pareti? fino a un comitato dei muri che diventa aperto e creativo; la cultura hip-hop; il concetto di povertà e una ricerca sul tema; un modo diverso di organizzare il ricevimento genitori; i conseils e le loro varie riuscite; giornali murali; cartelloni su “propongo”, “critico”, “mi congratulo”; inchieste nel quartiere; organigramma della scuola e rivendicazioni “sindacali” sui bagni; ecc. ecc.
Nei racconti-articoli della professoressa belga i colleghi e i dirigenti trovano poco spazio, non sono rappresentati ma la loro voce e la loro presenza traspare dalle preoccupazioni e dalle pressioni che lei riceve. Non indulge a macchiette e ritratti ma pur essendo principalmente interessata alle ragazze non manca di trattare col pudore e l’intelligenza dovuti anche i docenti, che sono a loro volta condizionati, pieni di timori e sottoposti all’autorità del preside e della struttura. La lettura del libro per i/le prof. è liberatoria anche per questo implicito invito a osare e organizzarsi, sostenendosi alla convinzione che se si istituiscono altri campi o ambiti di azione all’interno della forma attuale si troveranno anche dei modi di resistenza.
Ultimo ma non piccolo merito di questo libro è far conoscere alla lettrice/lettore interessati la Pedagogia istituzionale, un movimento pedagogico dai diversi orientamenti, che nacque in Francia negli anni ’60 e che tradusse la lezione di Freinet nei contesti metropolitani della grandi scuole di banlieue, integrandovi man mano elaborazioni autonome sia nelle tecniche didattiche che educative. Fondamentale fu soprattutto l’attenzione alla dinamiche psicologiche dell’individuo e del gruppo, sviluppata attraverso le collaborazioni tra Fernand Oury, una delle anime principali del movimento, con psichiatri e psicanalisti come Françoise Dolto, Felix Guattari e François Tosquelles. I libri di Oury e Aida Vasquez (la psicologa con cui lavorò moltissimo nelle classi) non vengono ritradotti da tempo, ma rimangono una miniera di suggestioni illuminanti per la didattica e per l’organizzazione della classe in maniera cooperativa oltre che testi di grandissima profondità umana e intellettuale capaci di restituire tutta la forza della dimensione collettiva della ricerca educativa.
Per saperne di più
Aïda Vasquez, Fernand Oury, Memorie di un asino. O peripezie di un maestro in cerca di scuola (1976); Tecniche e istituzioni nella classe cooperativa: i presupposti della pedagogia istituzionale (1978); Rapporto dalla scuola-caserma: come l’insegnamento tradizionale distrugge il desiderio di conoscere e di esprimersi (1980), tutti editi da Emme
Georges Lapassade, L’autogestione pedagogica, Franco Angeli 1973
Aïda Vasquez, Fernand Oury, L’educazione nel gruppo-classe: la pedagogia istituzionale, Edizioni dehoniane 1975
Francis Imbert (a cura), Il gruppo-classe e i suoi poteri. Quattro esperienze di pedagogia istituzionale, Emme 1976
(da Il Barrito del Mammut n. 6, aprile 2010)
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Girolamo De Michele, La scuola è di tutti
di Giorgio Morale
Un tempo le inchieste venivano fatte dai governi per conoscere il Paese, oggi dai cittadini, spesso contro i tentativi di disinformazione messi in atto dai governi. E’ il caso, per il sistema dell’istruzione, di La scuola è di tutti, libro-inchiesta che unisce informazione ad analisi critica e pensiero, qui e là con qualche gustoso brano narrativo, essendo opera dello scrittore Girolamo De Michele; nell’insieme un documento imprescindibile per la scuola di questi anni e non solo.
Tanto per fare qualche esempio di disinformazione: non è vero quello che sostiene il Ministero che gli insegnanti italiani sono troppi; non è vero che nelle scuole italiane c’è più bullismo che nel resto d’Europa, anzi la scuola è lo strumento più efficace per il recupero dei bulli; non sono attendibili i dati OCSE sulle scuole superiori, perché gli studenti europei cominciano le superiori un anno prima e pertanto le loro conoscenze non sono comparabili con quelle dei nostri studenti; non sono attendibili risultati di inchieste fatte con logiche aziendalistiche e non didattiche o pedagogiche; non è vero che i tagli all’istruzione vengono fatti perché non ci sono soldi: i soldi ci sono e vengono investiti in spese militari, scuole private, opere faraoniche inutili (il ponte sullo Stretto), aliquote fiscali inique; ecc.
Dal libro emerge il peso enorme del contesto e la consapevolezza che è tutta la società ad educare. E la società oggi è diseducante.
“Quella in corso è una crisi, non un’emergenza educativa.
Una crisi nella, non della, educazione…
Perché “nella” e non “della”? Perché la scuola è all’interno di un più vasto sistema educativo, che è attraversato da tempo da profondi mutamenti. E perché è altrettanto importante capire che l’alternativa all’educazione non è l’assenza di educazione, ma una diversa educazione.”
Ne La scuola è di tutti ci sono molti dati significativi sull’argomento. Ad esempio, per limitarmi al contesto culturale: in Italia ci sono 691 piccoli comuni, per circa 13 milioni di cittadini, privi di una libreria. Una porzione importante della popolazione italiana perciò frequenta i libri solo all’interno della scuola, il cui compito rimane nonostante tutto insostituibile. La foto della scuola napoletana assediata dalla monnezza che è girata qualche mese fa mi pare da antologia, e un quadro emblematico della realtà nazionale.
Diseducante è anche la principale agenzia formativa degli italiani, la televisione, unitamente agli altri media e alla stampa. A questo proposito, è da notare come uno dei bersagli principali del libro di De Michele sia proprio la stampa, anche quella più blasonata, accomunata alla più becera nella disinformazione.
Qualche esempio: nell’estate 2008 la stampa ha discusso di grembiulino, quando nessuna legge “Gelmini” introduce il grembiulino; ha parlato di 5 in condotta come panacea contro il bullismo, quando il 5 in condotta può essere dato in casi rarissimi già in precedenza oggetto di gravi sanzioni; si diffondono slogan gelminiani come merito e qualità, quando tutti i provvedimenti del Ministro distruggono le possibilità di realizzare una scuola di qualità. Insomma, si costruisce l’analfabetismo di ritorno come premessa a un fascismo culturale di ritorno. Si costruisce l’emergenza per introdurre legislazioni di emergenza. Si denigra la scuola pubblica per finanziare la scuola privata e svendere ai privati quella pubblica.
Questo atto d’amore verso la scuola pubblica non a caso si chiude con una capitolo intitolato Torniamo alla scuola della Costituzione e con una sorta di manifesto educativo contro il fascismo pedagogico.
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La settimana scolastica
L’anno si chiude con una delle più estese, radicali e creative proteste della scuola e della società italiane degli ultimi anni.
Tanto che nell’attesa della nuova giornata di mobilitazione di martedì 21 dicembre, quando il ddl Gelmini sull’università sarà discusso in Senato, c’è chi propone leggi speciali, chi arresti preventivi, chi di sparare.
Il ddl Gelmini è diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro, di una generazione che per la prima volta avrà meno di quanto hanno avuto i padri in termini di lavoro, opportunità, consumi, aspettative di vita; si è trasformato al contempo nella rappresentazione dell’indifferenza dei governanti per i governati.
Per l’Ocse, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l’Italia è al penultimo posto per l’occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D’altronde – dice Marco Revelli – “l’80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto… (vedi qui)
Ma vediamo altre voci riguardanti lo stato del Paese: la disoccupazione, ad esempio:
il tasso di disoccupazione “reale” si aggira tra 12-13% secondo altri, come l’economista Michele Boldrin siamo addirittura al 16%. In un biennio si sono persi ben un milione di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è passato dal 6,8% all’8,5%, un salto in avanti evidente. A questo va aggiunta l’impennata della cassa integrazione guadagni, passata da 51,8 milioni di ore autorizzate nel secondo trimestre 2008 a 333,9 milioni nel secondo trimestre 2010. L’Istat, inoltre, certifica che gli inattivi sono saliti a +529 mila unità e il tasso di inattività è passato dal 36,5% al 37,5%. Sommando alle persone in cerca di occupazione, che sono secondo le ultime stime 2,089 milioni, gli occupati equivalenti in Cassa Integrazione pari a 696 mila, si ha una cifra totale pari a 2,785 milioni, ossia l’11,3% delle forze di lavoro. (vedi qui)
Oppure la pressione fiscale:
l’Ocse sottolinea l’aumento dal 2008 al 2009 della pressione fiscale, controcorrente rispetto agli altri paesi. Così l’Italia scala una posizione e con il 43,5% si colloca al terzo posto, subito dopo Danimarca e Svezia, Paesi che tradizionalmente associano a un welfare a tutto tondo anche un peso di tasse e contributi notevole. Nella media dei 33 Paesi Ocse, invece, la pressione fiscale si è attestata al 33,7%… (vedi qui)
E la società su che china è messa?
Nel 2007 l’Istat registrava che il 32,9 per cento delle famiglie italiane non era in grado di sopportare una spesa straordinaria e improvvisa di 600 o 700 euro: vuol dire che una famiglia su tre di fronte a un accidente che le sarebbe costato appunto 600 o 700 euro sarebbe precipitata da uno stato di relativa tranquillità alla condizione di povertà. Intanto nel 2008 i pignoramenti di case per mancato pagamento del mutuo sono aumentati del 54%… (vedi qui)
Il governo si limita ad annunciare tagli di tasse, posti di lavoro e benessere per tutti: confida nell’effetto annuncio.
Il 44° Rapporto Censis fotografa un’Italia diversa da quella che ci viene dipinta da chi governa:
“Sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo), soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa.”
Un anno terribile per la scuola pubblica è passato, le feste saranno festeggiate in economia, e già si annunciano altri tagli.
Anche se, a un sondaggio sulla corruzione che ha coinvolto un milione di italiani, mentre oltre il 40% degli intervistati dichiara di non avere fiducia in alcuna istituzione, l’istruzione nonostante tutto gode ancora la fiducia degli italiani.
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Petizione al Presidente della Repubblica: No ai tagli, no ai finanziamenti alle private.
Il decreto Brunetta qui.
Tutti i materiali sulla “riforma” delle Superiori qui.
Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.
Guide alla scuola della Gelmini qui.
Le circolari e i decreti ministeriali sugli organici qui.
Una sintesi dei provvedimenti del Governo sulla scuola qui.
Un manuale di resistenza alla scuola della Gelmini qui.
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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.
Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.
Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Cub.
Spazi in rete sulla scuola qui.
(Vivalascuola è curata da Alessandro Cartoni, Michele Lupo, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Lucia Tosi)