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Vivalascuola. E’ sufficiente un professore – uno solo! – per salvarci da noi stessi e farci dimenticare tutti gli altri

Creato il 18 aprile 2011 da Fabry2010

Vivalascuola.  E’ sufficiente un professore – uno solo! – per salvarci da noi stessi e farci dimenticare tutti gli altri

Tutti quanti, ogni mattina, allo squillare della campanella, dopo aver varcato la soglia della loro scuola, si tolgono il soprabito e il loro bagaglio di idee, giudizi, pregiudizi, gusti e disgusti, ed entrano in classe armati solo del loro registro e della loro preparazione, per “accendere un fuoco” nei loro ragazzi, come diceva Yeats, e aiutarli a conseguire “virtude e canoscenza“. Diversamente, non sarebbero insegnanti, sarebbero degli agit-prop. Ci saranno anche delle pecore nere e delle pecore rosse, ma la stragrande maggioranza è così. (Francesco Anfossi)

Il quaderno delle prove giovanili
di Donato Salzarulo

inculcare [in-cul-cà-re] v.tr. (inculco, inculchi ecc.) [sogg-v-arg-prep.arg]. Imprimere profondamente, con insistenza, qlco. nell’animo o nella mente di qlcu.: i. il senso del dovere nei figli

Rimarrà sempre un segno. Non si trascorrono inutilmente ore ed ore nelle aule scolastiche. Tra una lettura e un esercizio, un’interrogazione e una traduzione, un riassunto e una parafrasi, ad un certo punto, succede qualcosa. Può succedere qualcosa. Tra i 14 e i 15 anni, un giorno che non ricordo, decisi di aver diritto anch’io ad un Canzoniere. Come Petrarca. Esattamente come lui: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Allora mi recai all’imbocco della strada, svoltai a destra ed entrai nel negozio di Nunziatina, una signora che vendeva di tutto: dai caciocavalli alle matasse di lana, dalle sardine alla pietra turchina, dai tortiglioni ai quaderni. Ne comprai uno, a quadretti e molto spesso. Tornai a casa e scrissi un sonetto, un autoritratto sul modello di Foscolo. E continuai: un giorno sì e quattro no, per tre anni. E’ il mio Quaderno delle prove giovanili. Valore poetico: zero. O, quando mi va di essere professore meno severo con me stesso, insufficiente. Qualche verso si salva: “Gioire è cercare il dolore”.

Comunque, quanto ha pesato la scuola in questo gesto, fattosi, giorno dopo giorno, scelta?
Tanto direi. Tra i banchi avevo sentito parlare di Petrarca e di Foscolo. E’ lì che, dopo aver impresso nella mente Chiare fresche e dolci acque piuttosto che In morte del fratello Giovanni, continuavo a recitarmele dentro per essere pronto a recitarle fuori, in caso di interrogazione. “Inculcare” non diventa parolaccia soltanto perché recentemente l’ha usata il Presidente del Consiglio contro la scuola pubblica e i soliti insegnanti di sinistra, che ora sono accusati di permissivismo, ora di indottrinamento perché violerebbero, si suggerisce, la libertà dei discepoli e addestrerebbero scimmiette piuttosto che persone. Inculcare significa soltanto imprimere nella mente, fissare. E se una formula, una poesia, una conoscenza non lascia un segno, non si interiorizza, non so proprio come possa essere di giovamento. Il problema è: quale segno? E per quale fine?

Penso che quel mio quaderno sia come un Giano bifronte: da un lato un prodotto di imitazione (di rispetto, quindi, e identificazione con modelli portatori di autorità) dall’altro un risultato di libertà (risposta a proprie pulsioni interiori e voglia di scoprirsi attraverso gli altri). Questa voglia di libertà mi portò nel Sessantotto ad occupare Palazzo Campana insieme a tanti altri. Ancora prima avevo osato un comportamento di aperta ribellione contro un professore di Francese che continuava ad irridere la mia cattiva pronuncia di alcuni fonemi di quella lingua.

Dopo il Sessantotto si è discusso in lungo e in largo sulle “funzioni sistemiche” della scuola: da quella della trasmissione alle nuove generazioni del patrimonio di conoscenze e abilità acquisite storicamente (saperi disciplinari e interdisciplinari) a quella della socializzazione (iniziazione alla vita sociale, educazione alla convivenza civile, cittadinanza attiva, ecc.); dallo stimolo all’elaborazione di una propria cultura allo sviluppo delle varie forme di intelligenza e delle capacità razionali e critiche. Insomma, ce n’è. Ciò che si racconta nelle successive testimonianze è altra cosa.

La scuola è per il singolo luogo d’incontri e di noie, di studio e lavoro, di avventure e di ansie, di felicità e timori, di obbedienze e ribellioni. E’ qui che forse continua ad attivarsi la coppia antica autorità/libertà, che si ha probabilmente la fortuna di incontrare chi ci aiuta a capire cosa vogliamo fare di noi stessi: Chi sono? Cosa voglio essere? Di ciò che sto studiando quali contenuti davvero mi interessano?… Ricordo bene il periodo in cui veramente ho scelto di voler continuare a leggere e sottolineare pagine e pagine, riassumere capitoli e interi libri, preparare schemi e quadri sinottici. E’ coinciso, all’incirca, con l’acquisto del quaderno.

Non so se oggi si inculchi alcunché e se i docenti siano diventati tutti auorità spettrali. Vedo mia nipote. Frequenta la terza media. Legge, studia, è molto più disciplinata di quanto fossi io, è innamorata dei prof., di qualcuno un po’ di più di qualcun altro un po’ di meno. Anche le sue compagne e i suoi compagni sono attenti e partecipi. Lei ascolta Lady Gaga e Shakira, io ascoltavo i Beatles; lei smanetta al computer, io annerivo pagine. Indubbiamente il paesaggio sociale è mutato. E molto. Ma tutti questi lamenti sulla “morte della scuola” non li comprendo. Ribelliamoci a chi di dovere e facciamo con competenza, passione ed entusiasmo il nostro mestiere. Rimarrà sempre un segno.

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Lucia Tosi

Entrava sorridendo appena, un saluto gentile. Sempre impeccabile, preferibilmente in grigio. Portava i capelli ben pettinati, grigi anch’essi, argentei. Mai un filo di barba, l’aria fresca, ordinata, di chi provvede con cura, ma senza smancerie, alla propria persona. Parlava con calma, precisione, graffiando leggermente le erre, non tutte, come se avesse cercato a lungo di sbarazzarsi di un difetto che conferiva alla sua parlata un esotismo percepibile come un inutile vezzo femmineo, all’epoca tollerato non senza qualche sorrisetto degli astanti.

Se ci distraevamo o parlottavamo tra noi, picchiettava con la penna sulla cattedra, inarcando leggermente le sopracciglia. Era di una chiarezza insuperabile, pacato, gradevolissimo all’ascolto. Non ricordo di essermi mai distratta durante le sue lezioni. I compagni non lo amavano tutti: l’amore per i professori andava per lo più ad altri soggetti, allora, che sprizzavano maggiore energia: jeans, camicia a quadri, pipa, capello lungo, barba. Di quelli che ci lasciavano sedere sui banchi, uscire in continuazione, leggere il giornale, discutere discutere discutere nella misura in cui, a livello, anche quando non c’era da discutere niente. Con lui ci si sedeva al proprio posto, si apriva il libro e si leggeva. Dava volentieri la parola, poneva domande sempre più complesse sullo stile, la retorica, il punto di vista. Così all’antica e pure così aperto al nuovo: chi altro mai avrà portato alla maturità nel 1976 il Gruppo ’63 e i Novissimi? Si studiava, si scriveva molto. A me veniva facile, e gli piaceva la mia maniera. Sapeva che leggevo tantissimo e che riversavo le mie letture in quello che scrivevo: mi incoraggiava a farlo con il suo modo sobrio, quasi asciutto.

Solo dopo molto tempo, non più di un anno o due fa, ho provato a scrivere timidamente i primi versi. Penso a lui spesso, rivedo il suo viso sereno e quella che mi sembrava allora severità, mentre era timidezza, era pudore, come se sapesse di maneggiare una cosa fragilissima come la letteratura e la sua bellezza, e di farlo per individui delicati e difficili, sospettosi, perfino ostili, quali eravamo. Penso a lui anche se non mi spinse mai in nessuna direzione esplicitamente. Incontrai più tardi dei grandi e riconosciuti maestri all’università, però talora, quando scrivo, penso al professor P., alla grazia e alla leggerezza della sua profondità di spirito, e se mi sorride, socchiudendo gli occhi, vuol dire che la pagina tiene.

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Sebastiano Aglieco

Ho incominciato a scrivere poesie e racconti da subito, appena ho imparato a leggere e a scrivere.
Mi ricordo di mia nonna Concetta, che di nascosto leggeva i miei raccontini.
Mi ricordo di una prof di Italiano in prima media, che mi incoraggiava a continuare senza dare mai giudizi, forse stupita, essa stessa, della mia precocità.
Mi ricordo di una prof, in terza media, la quale, invece, in antitesi, mi disse che dei miei testi non si capiva un accidenti, che erano ermetici, e che mi sarebbe stato utile leggere Gabbiani, di Cardarelli; un esempio di chiarezza e pulizia formale. Ai tempi mi arrabbiai moltissimo, strappando il mio primo quaderno di poesia – ho conservato tutto tranne quello – oggi, probabilmente la ringrazierei.

Mi ricordo del mio prof di italiano, in seconda media, al quale feci leggere la mia prima nota critica sulla spigolatrice di Sapri. Gli devo l’incoraggiamento a scrivere di critica.
Mi ricordo della mia prof di pedagogia, all’istituto magistrale. Tu devi insegnare, mi ripeteva, cosa che ho fatto.
Mi ricordo della mia prof di filosofia, sempre all’istituto magistrale, la quale commentava su di me mentre ero fuori dalla classe: è un idealista, il mondo va da tutt’altra parte. E delle clamorose litigate tra lei e me di fronte ai compagni impietriti, sul senso della vita e della filosofia.
Ricordo il mio prof di italiano, che in quarta magistrale era riuscito a malapena a terminare l’Alfieri! All’esame di Stato mi giocai l’ultima carta chiedendo al commissario che mi interrogasse sul novecento, anche se non era da programma. Devo a quell’esame il bel voto che poi mi ha permesso di vincere il concorso da maestro.

Devo… devo… devo… insomma.
Per me la scrittura non è mai stata scissa da una tensione verso la formazione, la vita, la pedagogia. Per me un poeta è uno che ha verità del pensiero e intensità del sentimento, forza conoscitiva della ragione e centralità umana dell’esperienza. (Gabriela Fantato a proposito della poetica di Daria Menicanti, Con la tua voce, La vita felice 2010).
Chi non è tutto questo, come diceva il Marino, chi non sa maravigliar, vada alla striglia.

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Alessandra Paganardi

Ho studiato al Berchet negli anni fra il 1977 e il 1982. Anni strani, difficili. Anni chiamati poi “del riflusso”. Non ero politicamente impegnata, anche se sentivo la realtà di allora come uno schiaffo, in tutta la sua violenza. Ho cercato di dire tutto questo in un poemetto, 1978, che ho scritto quasi trenta anni dopo, con la tenacia e la pazienza che si deve alla poesia.

Nel giugno del 1979 finii il ginnasio e nel settembre incominciai il liceo. Le lezioni d’italiano e latino erano tenute da una persona che non dimenticherò mai. Era la prof. Raffaella Solmi, figlia del critico e poeta Sergio Solmi, amico di Montale e Sereni.

Non lo seppi subito: non parlava mai della sua genealogia illustre, voleva essere soltanto una brava insegnante. Lo fu, e fu molto di più. E’ per merito suo che io, già ammiratrice della forma espressiva poetica fin dalle scuole medie, e della prosa ancor prima, ho imparato a dare alla mia passione il giusto nutrimento.

Non era un’insegnante stile Attimo Fuggente – e, devo dirlo, non ho mai amato quel modello. Era un’insegnante metodica, precisa, preparatissima, quasi accademica. Dante, Petrarca, Leopardi, Montale: quanto piacere nel sentirla leggere, spiegare, commentare, chiosare… non mi bastavano più le note a pie’ pagina, ne aggiungevo di mie. Leggevo saggi non esplicitamente prescritti, ne scrivevo di miei: d’estate, nel tempo libero, la domenica, per approfondimento; per mio piacere. La mia scrittura, che non era mai stata sfogo adolescenziale, ma che era alla ricerca di una forma (e lo è fortunatamente ancora), si nutriva, si riordinava, si espandeva, si metteva in riga. Cambiava.

L’apprezzamento della mia insegnante, sobrio ma chiaro, mi faceva sentire viva, vera. Qualche volta le chiedevo consiglio sui miei versi. Pur presa da tante cose, l’insegnamento e la famiglia – il padre era anziano e malato, morì nell’ottobre 1981; ancora lo ricordo – mi ascoltava sempre. Mi incoraggiava, mi sosteneva.

Gli insegnanti come la prof. Solmi, giudicati un po’ vecchio stampo dai colleghi più “moderni”, davano agli studenti del lei. Un’abitudine gentile che si è persa e che, al di là dell’aspetto un po’ pittoresco di trattare con il lei un ragazzo di sedici o diciassette anni, significava un grande rispetto per noi: significava una parità potenziale, l’ammissione alla dignità adulta attraverso non semplicemente il dato anagrafico, ma il simposio educativo che, grazie ad insegnanti così, la scuola fu per me, e ancora è.

Un giorno, in una delle conversazioni che le chiedevo all’intervallo, e che lei mi concedeva con grande cortesia, mi disse una frase profetica, che non ho mai dimenticato: “Paganardi, lei avrà dei problemi a scegliere fra le sue due vocazioni: la letteraria e la filosofica”. Ci pensai, al momento non capii. Sì, è vero, le materie umanistiche erano le mie preferite, quelle che non studiavo per mero ordine di servizio, ma… che cosa aveva voluto dire?

Lo chiedevo allora alla prof. Gisella Fedeli, con la quale sono tuttora in contatto. Era una donna straordinaria, anche se con un profilo diverso rispetto alla collega d’italiano. Lei ci dava del tu, ci invitava ad andare alle riunioni del consiglio di zona, ci proponeva letture di vario tipo, dalla politica alla critica storica, alla psicoanalisi. Citava sempre l’immagine di Schopenhauer dell’alata testa d’angelo, per farci capire come non debba ridursi ad essere un intellettuale, un insegnante, una persona. Aveva uno straordinario talento pedagogico e ci porgeva, insieme alle teorie filosofiche, il senso della ricerca razionale come cura di sé, come psychès theràpeia. Ci insegnava, con garbo e con un metodo d’insegnamento piuttosto originale, ad essere-nel-mondo.

La scelta dei miei studi universitari fu molto travagliata, ma non è interessante ricordarne i vari passaggi. Mi sono laureata in filosofia e sono felicissima d’insegnarla, anche se in un contesto difficile come la scuola. La filosofia, anche se può sembrare strano, mi ha dato l’aggancio con la realtà; mi ha impedito di pensare in termini soltanto letterari, di immagini e di versi, che erano fin da quando avevo tredici o quattordici anni la mia ossessione: un’ossessione potenzialmente isolante, assoluta. E mi ha dato strumenti di comprensione del mondo, di sopportazione – vorrei dire – del mondo stesso, che non sarebbero stati facilmente sostituibili.

Però ho continuato a interessarmi di poesia, e a scrivere. Ogni giorno di più capisco che cosa intendesse dirmi la mia insegnante: che anche per la vita dello spirito, le mani sono sempre due. Non si può scegliere, bisogna utilizzarle con saggezza; lavorare, operare per migliorare noi stessi e gli altri, per mettere ordine in un’entropia che forse è fatale, ma si arrende sempre un po’ di fronte all’impegno e alla pazienza.

Devo quasi tutto ciò che sono, nei limiti di ciò che sono, ad alcuni insegnanti straordinarie, ma in particolare a loro due. Due donne vere, che hanno passato gran parte del loro tempo a lavorare la materia dinamica e incandescente che sono gli adolescenti: l’hanno fatto al di là del dovere, l’hanno fatto perché sapevano che è giusto fare della vita, propria e altrui, qualcosa di autentico.

Spero, di riuscire a mettere in pratica anch’io la loro lezione più importante. T utti i giorni della mia vita.

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Nadia Agustoni

Alle elementari c’era il turno a rotazione per le classi, una settimana c’era scuola il mattino e una il pomeriggio, e questi pomeriggi erano lunghi, li soffrivamo, anche perché ci toglievano il gioco. Guardavo gli alberi dalle finestre, una piccola fila di platani e ci fosse la luce primaverile o la prima oscurità autunnale mi immalinconivo. A una certa ora la maestra si preparava il caffè su un fornellino minuscolo che teneva in un cassetto. Pareva le ore non passassero mai.

La maestra era una donna severa, all’antica, ma preparata, colta, con una tradizione famigliare di insegnamento alle spalle e con noi era esigente. Ci leggeva qualche poesia in classe, c’era l’obbligo di impararle a memoria, ma non ho particolari ricordi per poter dire che questo abbia favorito il mio approccio alla poesia, non alle elementari, fu dopo, alle medie, quando lessi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Mi colpì, forse anche per il mio carattere malinconico e i sogni di fuga che facevo in continuazione, mi fece pensare a cosa è la libertà, a quanta solitudine ci obbliga, mi fece amare Leopardi. Penso che la sua poesia mi abbia dato per la prima volta il senso di dovermi sottrarre al conformismo, che allora era anticulturale, era lo scherno verso chi leggeva, come se leggere non fosse che un argine e intanto la vita prendesse forza altrove.

Avendo pochi libri a casa per me leggere era tutt’altro e diventava di anno in anno necessità che non mi ha mai esentato da altri impegni. Poco dopo la scuola dell’obbligo trovai i primi libri di Pasolini e iniziai anche a scrivere alcune poesie che in un quaderno finirono, per via della felice intuizione di una signora dell’allora partito comunista, a un gruppo di poeti di Bergamo. Una la segnalarono a un loro concorso e fu un incoraggiamento, come la pacca sulle spalle al ragazzo per dire: “vai avanti”.

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Stefano Guglielmin

Non ho ricordi forti riguardo alla poesia conosciuta ai tempi della scuola. All’esame di terza media, tuttavia, ho portato l’Ungaretti di Porto sepolto. Vuol dire che qualcosa i miei insegnanti avevano seminato, malgrado l’impostazione fosse didascalica o, peggio, un esercizio di memorizzazione. Esercizio che allontana forse dalla poesia, ma che da adulti aiuta a dare un nome alle cose. La nebbia di Carducci o l’aspro odor di vini, in autunno ancora mi punzecchiano le narici. Ai miei tempi (e per fortuna), le elementari erano una palestra per imparare la grammatica; forse perché la poesia, probabilmente, spiazzava anche gli insegnanti, poco preparati a fare didattica su un testo dove la vita e la morte, la gioia e il dolore sembravano esperienze troppo adulte. A noi piccini rimanevano i suoni e qualche filastrocca. Ricordo però con piacere Bella ciao, imparata in terza elementare (ma eravano nel sessantotto, ora che ci penso…).

Durante le scuole superiori le cose non sono troppo cambiate. Anche perché forse non tutti sanno che io ho frequentato l’istituto per geometri, per cui, ad Omero e Dante, si preferiva la trigonometria e l’estimo. Alla poesia mi ha involontariamente avvicinato il mio compagno di banco, che, adolescente, mi leggeva il suo diario. E’ stata la prima volta che mi sono detto: anch’io posso farlo. Anch’io posso tradurre quel che sento in una lingua che finora ho usato male. Avevo molto da dire, soprattutto riguardo alla mia compagna di banco, che amavo di un amore totale, quasi mortale.

C’è stata invece un’insegnante che mi ha aiutato ad approfondire la mia passione per la psicoanalisi e per la filosofia. E’ siciliana ed è ora in pensione. Facevo tra l’altro da baby sitter a suo figlio, lei che era rimasta vedova poco più che trentenne. Parlavamo di tutto, ascoltavamo musica, mi consigliava dei libri. L’ultimo anno delle superiori (per mia scelta naturalmente), invece di approfondire le materie tecniche, leggevo Fromm, Freud, Marx. E anche Herry Miller, che avevo scoperto per caso in biblioteca civica. Poca poesia (Neruda e Prevert, come tutti in quegli anni). Evidentemente queste passioni non mi aiutarono all’esame di maturità tanto che dovetti ripetere l’anno. Ebbi così più tempo per cominciare a leggere Aristotele, Platone, Schopenhauer e Nietzsche.

Infine, mi iscrissi a Filosofia: non potevo fare di meglio. Avevo 20 anni, tanta voglia di viaggiare e di studiare, amici così cari da insegnarmi che cosa fosse davvero la vita e la morte, qualche amore maledetto e, dunque, la condizione perfetta per cercare la parola esatta, quella capace di toccarmi nel profondo. Ho impiegato vent’anni a trovarla.

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Anna Maria Curci

La gioia di scrivere, il desiderio di comunicare per il tramite della parola scritta ciò che – lo avrei scoperto più tardi nei miei itinerari di formazione in servizio – Kleist chiamava “la progressiva messa a punto dei pensieri” (allmählige Verfertigung der Gedanken) ha radici che si spingono molto indietro nel tempo dei ricordi personali.

Alcune tappe, tuttavia, si ripresentano vivide agli occhi della memoria, sotto forme di pagine vergate su un quaderno ‘a righe di quinta’, su un blocco di appunti quadrettato, su un foglio protocollo. ‘Scrivere a’, ‘scrivere per’, ‘scrivere su’, scrittura come viaggio, cimento, avventura, esperimento: testi diversi – un resoconto appassionato degli episodi salienti della serie Gianni e il magico Alverman, irrinunciabile appuntamento settimanale della tv dei ragazzi in un tema a casa; la ricostruzione fedele della scena finale de Il corsaro nero di Salgari in un tema in classe; la prima relazione su Vino e pane di Silone; la trasposizione su carta delle interviste condotte nel quartiere, su argomenti che andavano dalla crisi energetica al dibattito sugli ospedali psichiatrici; la stesura (la mia prima prova di scrittura creativa) del preludio alla messinscena di due estratti da opere teatrali famose – si raggruppano attorno alla persona che, come professoressa di lettere della mia classe, prima, seconda e terza B della Scuola Media Statale “Colle di Mezzo” dal 1971 al 1974, ne ha ispirato e promosso la redazione: Teresa Mileti.

Il liceo mi avrebbe riservato altre scoperte in questo universo, rendendo accessibile la dimensione comparativa della scrittura, delle scritture. La musicalità delle parole, il dialogo incessante tra letterature che sottende il testo poetico: tutto questo è legato al “maestro di letteratura senza confiniSteno Vazzana, mio professore di italiano e latino al Liceo Classico Statale “Francesco Vivona” dal 1976 al 1979. La parola scritta si fonde nel ricordo con la parola recitata: le innumerevoli letture della Commedia in classe o negli incontri, la domenica mattina, alla “Casa di Dante” a Trastevere; i Canti di Catullo, Alla stazione in una mattina d’autunno di Carducci risuonano nelle orecchie e suggeriscono ancora oggi rime e ritmi.

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Mariella Bettarini

Sono stata un’alunna, un’allieva assai “regolare”, e studiosa, e poi (durante la mia non felice adolescenza) persino appassionata, ché la scuola (frequentavo allora l’Istituto Magistrale “Caetani” a Roma) mi permetteva – credo – quell’equilibrio e quella partecipazione lucida, razionale, che in famiglia trovavo assai a fatica.

Devo tuttavia dire che l’amore, la passione (anzi), la “fedeltà” alla poesia non nacquero – per me – sui banchi di scuola quanto, piuttosto, da una impellente necessità personale di liberazione e di espressione, nonché di ricerca di un perno alto, e personale, e “sacro” (per me al pari della fede) cui ancorare quei miei assai tristi anni.

Nessuno/nessuna insegnante – che io ricordi – mi appassionò davvero alla poesia, mentre ho bene in mente un forte, subitaneo interesse e poi un profondissimo attaccamento verso la filosofia, “innescato” da una professoressa che, entrando in aula, iniziò a parlarci di Socrate, della sua eroica coerenza, della sua dialettica verità…

Certo, ebbi (e dura “da sempre”) un grande amore per Leopardi, iniziato in quegli anni, ma devo dire che poi tutte le altre conoscenze salienti, le letture, le “accensioni” fondamentali avvennero per me del tutto al di fuori delle aule scolastiche, dopo la scuola. Anche perché, purtroppo, in quegli anni, anche nelle Superiori, non si accennava minimamente a nessun autore/autrice straniero/a, a poeti di altre letterature che non fossero quella italiana. Impedendo, così, incontri fondamentali e creando lacune da dover poi colmare con ricerche e scavi del tutto individuali (il che non risulta affatto negativo per l’evoluzione di una personale scrittura poetica).

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Maria Pia Quintavalla

Il primo insegnante che mi parlò di poesia deve essere stato mio padre, che io indovinavo precluso e chino, dietro la porta dello studio di casa, in quella piccola città vivente dei poeti, da cui leggeva, e mezza Parma veniva in processione adorante a prendere lezione da lui, che spiegava Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, forse fino a Ungaretti, e che insegnava anche il latino, magistralmente, dicevano gli allievi. Io ero l’unica ragazza cui non fece mai lezione. Mi toccava dietro l’uscio vederne l’ombra, neppure udirlo, poiché la mamma interdiva.

Eppure, già dalla scuola elementare, ecco spuntare la mitica maestra Feldmann, materna e strana, che di sicuro ci leggeva dalle nursery rhymes, facendoci recitare a teatro poesie e canzoni. Per la timidezza, non venivo scelta. Alle medie invece, un’arcigna prof. disse a mia madre, che ero “una contorta”, troppo profonda, poiché mi indirizzavo a una scrittura introspettiva.

Ci obbligava a diari coatti, dal titolo “osservare, riflettere, esprimersi, che io eseguivo. Ma dai miei diari, anche di vacanza, nascevano figure, metafore spiazzanti, frasi in versi, verticali o narranti, fuori coro. Non raggiungevo l’otto. Ero per loro, una ragazza complicata.

Alle magistrali gli incontri più belli: “A che personaggio vorresti somigliare?” Io, quattordicenne, scrissi di Luigi Tenco e di Jack Kerouac. L’anno dopo, l’incontro con l’insegnante Teresa Musci, partigiana con le sorelle, e dirigente del P.C.I., bravissima, che ci fece leggere Gramsci, e entrare nella storia e nella letteratura con sguardi nuovi. Quello psicanalitico e strutturalista, sarebbe arrivato, per fortuna soltanto all’università. L’insegnante di latino, Isa Guastalla, Colombi Guidotti, arrivava stravolta a scuola la mattina, dicendoci che aveva letto fino all’alba Catullo e Parise.
E noi, non chiedevamo altro, che di farci sedurre e contagiare.

Poi, fischiò il vento del sessantotto fino al settantasette, e si leggeva di meno, o diversamente: si stravolgevano le mappe; io acquistavo antologie sulla beat generation in poesia, meno accademica della neo avanguardia italiana, che spostava l’ago verso altra scrittura, fuori Europa Anche le letture di Laing, Levi Strauss, Ong, Foucault, Deleuze, Débord, De Beauvoir, Millet, Marcuse e tanti altri mi avrebbero educata. Quanto ai poeti, avrei scoperto dieci anni dopo, e sola: Porta, Pagliarani, Sanguineti, Zanzotto e Rosselli, ma pure Trakl, Novalis, Rimbaud, Baudelaire, Achmatova, Lorca. “Essere il blu neon della notte, / come una lebbra volerlo, / magicamente guarirne” avrei scritto di quell’aura. Gli incontri forti con i poeti viventi, specchio al mio nascente pensiero poetante futuro, sarebbe avvenuti dopo un decennio, a Milano: Fortini, Porta, Giudici, Zanzotto, Raboni.

In mezzo la (mia) ”stagione totale”. Il primo amore, scrittore di Napoli fu un discreto iniziatore agli amori della letteratura: da Kafka a Pessoa, da De Quincey a Michaux, Loti, Lautrémont, Pasolini. Poi, le mie letture crescevano sui contemporanei: Spatola, Caproni, Vicinelli, De Angelis, i futuristi russi, e i surrealisti francesi e di lingua spagnola. Insieme a Nadia Campana, e Gino Scartaghiande le riletture mitiche del nuovo *culto della poesia* come lo ebbe a battezzare Zanzotto, noi, “confraternite dei più cupi ardori”. Di lì a poco poi, la differenza fra poeti vivi e morti si sarebbe dovuta ricomporre, come nel giusto.

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Teresa Zuccaro

Nella mia infanzia ho avuto la possibilità di sviluppare un’attitudine all’ascolto e all’attenzione che la poesia richiede  grazie al fatto che mi è stato permesso di essere una bambina pigra, non continuamente impegnata in mille attività, ma per lo più libera di fantasticare o semplicemente di annoiarsi, che passava lunghi pomeriggi all’aria aperta, al mare o in campagna, al contatto con la natura.

Le persone che più mi hanno avvicinato alla poesia sono mio padre e la mia maestra delle elementari.
Mio padre mi raccontava sempre qualcosa per farmi addormentare, e dopo aver esaurito le favole e le trame dei romanzi ottocenteschi è passato all’epica e a recitarmi poesie. La mia preferita era Davanti a San Guido di Carducci, soprattutto nella parte in cui il poeta parla della figlia Tittì, e si ricorda della nonna che gli raccontava la favola del Re Porco.

La mia maestra delle elementari per tutti i cinque anni, penso senza interruzioni ma non so se ricordo bene, ci ha fatto imparare una poesia a memoria alla settimana. Ce la dettava il sabato e dovevamo impararla per il lunedì. Erano poesie di Ada Negri, dei crepuscolari (ne ricordo una che si intitolava Memento) e poi, naturalmente, Pascoli, Carducci, alcune di D’annunzio (I pastori), Palazzeschi, e così via. Ci spiegava il tema trattato e il significato delle parole difficili in modo che il compito assegnato producesse un senso e non fosse solo uno sforzo mnemonico. In genere mi piaceva conoscere le storie che le poesie raccontavano, impararle era a volte una tortura e ne ho dimenticate la maggior parte, ma penso che quell’esercizio di scrivere sotto dettatura e memorizzare mi abbia lasciato il senso del verso e del ritmo.

Alle medie e alle superiori i miei professori hanno dato più importanza ad altre cose e mi hanno fatto credere che la poesia fosse una cosa difficile, per cui ho smesso di frequentarla con piacere per un po’ finché all’università non ho ricominciata a leggerla con lo spirito di quando ero una bambina.

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Maria Grazia Calandrone

Convinta come sono che la scuola formi un’area decisiva della personalità dei futuri cittadini, ho accettato contenta di sciorinare una mezza paginetta di ricordi miei propri di allieva e di estemporanea portatrice di versi tra i banchi. Gli occupanti dei banchi, quando non volontari, sono annoiati preadolescenti che si presentano all’appuntamento con il pregiudizio che i poeti siano dei gobbi e lagrimosi individui macerati da lutto e da dolore. Possiamo intervenire immediatamente sulla noia cercando di coinvolgere i ragazzi nella lezione, soprattutto lavorando insieme alla produzione di testi secondo le memorabili lezioni di Antonio Porta, che usava ritagli di giornale e ironia e foto per mettere in mano ai ragazzi l’oggetto-poesia, ottenendo così il doppio risultato di sdrammatizzarlo e nello stesso tempo di sentire insieme ai ragazzi l’euforia che proviamo alla emersione del bello. Altrimenti di fronte al tema del dolore siamo completamente sguarniti, perché i testi confermano il pregiudizio.

Occorre basarci sulla nostra esperienza per comprendere quale attrazione si provi al presentarsi della poesia: personalmente, non posso dimenticare il giorno nel quale Paola Moretti, mia insegnante di lettere al ginnasio, fu ispirata a leggerci il Notturno di Alcmane. Quello che mi raggiunse non era dolore, non era nemmeno la riparazione del dolore: era un altro mondo, lo sguardo umano che si faceva così profondo, alto e acuto, da rivelare un mondo dove avrei voluto riaprire gli occhi, perché in quel mondo si vedeva meglio, più chiaro e netto. All’apparenza la poesia (nella traduzione di Salvatore Quasimodo) era una semplicissima trascrizione della natura addormentata – ma la descrizione non era né bucolica né soave, era quasi scientifica, dettagliata e spaziosa. Ecco: sfondare la vernice delle apparenze. Spaziosità dentro ogni dettaglio, lo sprofondamento in elementi misteriosi, la fantasia controllata con rigore, la macchina meravigliosa della libertà associativa – un luogo dove essere armonizzata con tutti i viventi, altro che lutto e dolore!: questo quello che cerco di trasmettere quando parlo di questa cosa inutile che è la mia chiave per interpretare la natura, gli uomini, la politica, i sogni della notte, la mia stessa libertà.

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Materiali

Edgar Morin, Educare per l’era planetaria

Freud diceva che esistono tre funzioni che è impossibile definire: educare, governare e psicanalizzare. Perché sono più che semplici funzioni o professioni. Il carattere funzionale dell’insegnamento porta a ridurre l’insegnante a un funzionario. Il carattere professionale dell’insegnamento porta a ridurre l’insegnante a un esperto. L’insegnamento deve cessare di essere solo una funzione, una specializzazione, una professione, per ridiventare una missione di trasmissione di strategie per la vita. La trasmissione richiede, evidentemente, competenza, ma richiede anche una tecnica e un’arte. Richiede ciò che nessun manuale cita, ma che Platone sottolineava già come una condizione indispensabile a qualsiasi insegnamento: l’eros, che è a un tempo desiderio, piacere e amore: desiderio e piacere di trasmettere, amore per la conoscenza e amore per gli allievi.

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Vittorino Andreoli, Lettera a un adolescente

Mi piacerebbe, come vecchio, essere assoldato da un gruppo di giovani per una loro azione, per un lavoro corale in cui anche un vecchio può servire, se non altro perché può raccontare storie e ricordare la Storia.
Per non diventare un adolescente eroe occorre che tu abbia un senso, che ti senta investito di un significato che si attacca alla tua esistenza ora e quindi anche al futuro, poiché l’esistenza è una “durata“, una sequenza che si svolge in un tempo e uno spazio continui.
Non stancarti mai di ricercare il tuo senso.
Ma occorre che anche la società si decida a dare senso agli adolescenti, non limitandosi a cacciarli dentro una sacca in cui l’unica cosa che li aspetta è apprendere, prepararsi ad avere un significato domani, caricato magari solo di valenza economica, poiché la professione è sempre la metafora del quanto denaro guadagnerai.
Gli adolescenti hanno significato adesso, in questo arco della vita, e devono esprimerlo nella società. Più avanti, con la fine dell’adolescenza, ne assumeranno uno diverso. E hanno un ruolo dentro la famiglia, nell’affettività familiare e nel mantenimento degli equilibri, anche se contribuiscono a creare conflitti.
Occorre essere ricchi di fantasia, nutrire quel mondo che, dentro la testa, è carico di progetti e di desideri. Un mondo in cui, come ti ho detto, vengono accolte anche le utopie più grandi.

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L’occhio del lupo
Comunisti?… Non ne trovi uno manco a pagarlo!

Insomma tutti questi comunisti a scuola che io mi giro e rigiro per i corridoi per la sala-professori (sala mo’…) non ne trovi più uno manco a pagarlo. Tanto che per compensare mi son messo di buzzo buono per lavorare a un recupero di Pol Pot. Possibile che non vi fosse nulla di buono in quel fine stratega? Pensa che ti ripensa… Ecco, le bambine e i bambini cambogiani. Sono i più belli del mondo – è un fatto. La prostituzione, dopo l’Angkor Wat, è la voce più redditizia benché non ufficiale del Pil di quel paese. Questi fanciulli, lineamenti a parte, hanno scritto negli occhi un terrore atavico, mutuato dalle esperienze degli adulti, che contribuisce al loro fascino. Il merito di Pol Pot mi pare evidente – se a voi lettori no, vuol dire che siete comunisti davvero. Ossia fossili della storia ancora alla ricerca – noiosissima peraltro – di un senso logico nel ragionamento. Avete le facce tristi. Pretendete pure di vincere le elezioni, magari, no?
(michele lupo)

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La settimana scolastica

Il Tar del Lazio annulla i decreti sugli organici 2009 e 2010, con sentenza definitiva, accogliendo il ricorso del comune di Fiesole e di un gruppo di docenti, genitori, studenti e personale della scuola, con la coordinazione dei Comitati Per la Scuola della Repubblica, il Comitato bolognese Scuola e Costituzione e il Crides di Roma. La notizia della settimana è questa. Vuol dire che tutti i tagli di insegnanti materie e ore di lezione del triennio sono stati fatti nell’illegalità.

Se le sentenze della magistratura avessero un peso, se davvero venissero applicate, e vedremo cosa succederà in questo caso, questa sarebbe non solo la notizia della settimana, ma la notizia del triennio Gelmini: come scrivevamo qualche mese fa, la riforma Gelmini non esiste.

Molte notizie della settimana rivelano in che conto sia tenuta da chi governa la scuola pubblica e i suoi problemi. Si è diffusa la notizia che la rete televisiva ammiraglia del Presidente del Consiglio, Canale 5, stava reclutando precari della scuola, rimasti senza lavoro dopo i tagli della Gelmini, per un reality show in cui avrebbero dovuto tenere a bada una classe di vip ignoranti. In palio dieci anni di stipendio. Progetto che fa il paio con il consiglio dato dallo stesso Presidente del Consiglio a una precaria di sposare un milionario.

«Sei un insegnante precario della scuola? Sei disoccupato? Vuoi rimetterti in gioco e fare qualcosa di diverso? Contattaci, puoi vincere dieci anni di stipendio»

Questo era lo spot che girava sulle reti Mediaset. “Non è mai troppo tardi” avrebbe dovuto essere il titolo del programma. Proteste e indignazione da parte di sindacati, opposizioni, associazioni di precari, ad esempio di Brunello Arborio, fondatore del Forum precari scuola:

«Prima il governo mette gli insegnanti in mezzo alla strada con i tagli agli organici poi le televisioni della famiglia del premier sfruttano la loro disperazione con la solita lotteria della fortuna»

In seguito a tante proteste, pare che il reality show sia saltato.

Anche la critica ai testi scolastici, specie quelli di storia, colpevoli di essere tutti comunisti, non indica una grande considerazione della scuola e degli insegnanti. Sono 19 deputati del partito del premier, guidati da Gabriella Carlucci, a chiedere una commissione d’inchiesta “sull’imparzialità dei libri di testo scolastici“, poiché nei libri vi sarebbero frasi da vero e proprio “indottrinamento” per “plagiare” le giovani generazioni a fini elettorali e “gettare fango su Berlusconi” . Il progetto di legge è stato già depositato alla Camera il 18 febbraio scorso. Durissimi i commenti di opposizioni, organizzazioni di studenti, sindacati.

La Flc Cgil

“ribadisce con forza che la libertà di insegnamento, di cui la scelta dei libri di testo è una parte significativa, è un principio costituzionale non disponibile per nessuna maggioranza o governo”.

Vale la pena leggere anche il commento di Stefano Bartezzaghi:

Vittima designata della campagna di primavera contro la scuola italiana non è tanto la Verità, Né la Storia. Né l’una nell’altra, per fortuna, sono nella disponibilità del Parlamento. Non è neppure la scuola pubblica, che avrebbe ancora la possibilità di cavarsela (se solo ci si adoperasse per risolvere i problemi che ha). La vittima principale è una professione, che corrisponde alla necessità sociale che soddisfa: l’insegnamento.

Nel mirino del Presidente del Consiglio anche la magistratura. E infatti…

In seguito a ripetuti pronunciamenti del Tar del Lazio, del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale, il Ministero dell’Istruzione dovrà inserire 3000 precari della scuola, patrocinati dall’Anief, quasi tutti meridionali, a “pettine” nelle graduatorie provinciali dove prima si trovavano “in coda. Lo scorso 4 aprile Cannerozzi De Grazia, commissario ad acta nominato dal Tar Lazio nel 2009 per eseguire le sentenze pronunciate dai giudici, ha scritto ai provveditori agli studi ricordando loro che occorre procedere come indicato dalla sentenza del Tar. Anche perché l’ulteriore inerzia potrebbe configurare “responsabilità di natura penale, amministrativa e contabile per l’avvenuta omissione di atti d’ufficio e per danno erariale da parte di tutti i responsabili“.

Bisogna aggiungere che il governo farà ancora di tutto per non applicare le sentenze. «La riapertura delle graduatorie - annuncia il senatore Mario Pittoniè il male assoluto. Mi batterò per rendere impossibili i trasferimenti di provincia dei professori precari».

Per l’ordinaria amministrazione, segnaliamo che di fronte alla riduzione dei finanziamenti statali le università saranno costrette a chiedere “un aiuto concreto” agli studenti per sopravvivere: c’è chi ha già aumentato le tasse lo scorso anno e sta pensando a un “ritocchino” per il prossimo; chi ha ridotto il capitolo “diritto allo studio“,  chi pescherà principalmente nelle tasche dei fuoricorso; mentre diminuiscono i fondi per le borse di studio.

E… il sabato?

PADOVAUn nuovo attacco all’istruzione pubblica. Dopo quello sferrato alla fine di febbraio, quando disse che “libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori“. Silvio Berlusconi insiste. E in un messaggio inviato a Padova a una riunione dell’Associazione nazionale delle mamme, ribadisce che i genitori oggi possono scegliere liberamente “quale educazione dare ai loro figli e sottrarli a quegli insegnamenti di sinistra che nella scuola pubblica inculcano ideologie e valori diversi dal quelli della famiglia“.

Sarà per questo che si registra di nuovo un boom dei diplomifici? O che abbiano spazio posizioni negazioniste dell’Olocausto? O che alcuni presidi diventino intolleranti? O che il vicepresidente del Cnr sostenga che lo tsunami in Giappone è “una voce della bontà di Dio“?

Gli studenti hanno indetto mobilitazioni per il 19 aprile.

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Il decreto Brunetta qui.

Il vademecun della CGIL sulle sanzioni disciplinari qui.

Tutti i materiali sulla “riforma” delle Superiori qui.

Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.

Guide alla scuola della Gelmini qui.

Le circolari e i decreti ministeriali sugli organici qui.

Una sintesi dei provvedimenti del Governo sulla scuola qui.

Un manuale di resistenza alla scuola della Gelmini qui.

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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.

Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.

Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Gilda, Cub.

Spazi in rete sulla scuola qui.

(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Alessandro Cartoni, Michele Lupo, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Lucia Tosi)



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