Parole scritte per il tè coi biscotti e parole scritte per i minuti alla fermata del bus. Parole scritte per stare a casa e parole scritte per viaggiare.
Ora sempre più spesso acquisto libri destinati a ingrossare le pile delle letture in attesa, come le chiamo con un pizzico di consapevole ipocrisia. Ospiti garbati, i libri. Sistemati sul ripiano della credenza, accanto al vassoio della frutta, aspettano in silenzio il loro turno. Magari non arriverà mai.
Piuttosto sempre più spesso metto via un libro, accendo il computer, mi collego al mio profilo su Facebook e posto la prima cosa che mi viene in mente. Notizie, curiosità, citazioni, battute, saluti. Oppure plano su Twitter, incantato dal suo ritmo, dalla velocità con cui scorrono le sue righe, altrettante finestre sul mondo.
È come salire su un tappeto volante e lasciarsi portare via. Il mio zapping digitale: dopo la tv il mondo incantato del Web 2.0.
Vero, sto cambiando anch'io, non solo il mondo. E solo di tanto in tanto avverto il tarlo del dubbio.
L'altro giorno ci ho riflettuto un po' di più. Non è quello che faccio, mi sono detto. In realtà ciò che conta, ciò che sta davvero cambiando, è il mio sentimento del tempo.
Ed è questo che mi sembra di aver capito: queste immagini, queste parole che scorrono sugli schermi, che circondano la mia vita, mi illudono di vivere il mio tempo. Ma non è questo, vivere il tempo, così come non è nuotare abbandonarsi alla corrente di un fiume.
Non è una successione di istanti ancorati a un eterno presente, il tempo. Ha bisogno di profondità, ha bisogno di spessore, il tempo.