Vivian Maier. L'obiettivo della bambinaia

Creato il 19 ottobre 2015 da Gaetano63
Una grande fotografa ritrovata casualmente
Risaltano la grande curiosità e l’acume nel cogliere le caratteristiche della società americana. Oltre alla predilezione per le immagini riprese in strada.di Gaetano ValliniNell’epoca della fotografia digitale, immediatamente disponibile alla visione per la platea teoricamente sconfinata dei social network, in una sorta di compulsione a rendere pubblico qualsiasi istante della propria vita, anche il più insignificante, il caso Vivian Maier fa riflettere. Misteriosa bambinaia con la passione — forsanche ossessione — per la fotografia, autrice di decine di migliaia di scatti, trattò questa sua attività come una questione del tutto privata. Non che le mancasse il talento. Aveva buon occhio e ottima tecnica. Eppure custodì le sue immagini gelosamente, portandosele dietro a ogni trasloco, nei quarant’anni trascorsi a fare la tata nelle famiglie della upper class di New York e Chicago, ma senza mai mostrale ad alcuno. Per lei fotografare significava soprattutto esplorare. Non le serviva per comunicare, né le interessava far conoscere il suo modo di vedere il mondo. Le bastava riprenderlo, per trovare un senso e dare un ordine al suo universo personale. Si potrebbe dire, come scrive Marvin Heiferman nel corposo testo critico che accompagna il bel volume edito da Contrasto  Vivian Maier. Una fotografa ritrovata (Roma, 2015, pagine 288, euro 39), che per l’autrice fotografare era passione e riservatezza. Una riservatezza terminata due anni prima della sua morte, avvenuta nel 2009 e in miseria, grazie a John Malof, scrittore e street photographer, che nel corso delle ricerche per un libro s’imbatté nel lavoro di Maier in una casa d’aste di Chicago: il materiale, custodito in un magazzino, era stato confiscato per il mancato pagamento dell’affitto. Colpito dagli scatti su cui aveva messo le mani — tra i quali alcuni davvero notevoli, dei veri capolavori — decise di capire chi fosse quella sconosciuta e misteriosa fotografa che però non riuscì a incontrare. Ma dopo la pubblicazione delle prime immagini, la straordinaria vicenda della sconosciuta e misteriosa bambinaia fotografa è diventata un caso mediatico. E un affare, viste le quotazioni raggiunte dalle sue foto. Oggi, dopo il ritrovamento dell’intero archivio della donna — circa centocinquantamila scatti, tra stampe, diapositive e negativi ancora da sviluppare, oltre a filmati in super 8 e 16 millimetri — il volume offre attraverso 240 fotografie una visione più ampia, ancorché incompleta,  della sua attività. Una produzione imponente e di altissima qualità che Heiferman analizza nel contesto della street photographyamericana contemporanea, precisando che «le foto di Vivian Maier affascinano non solo perché siamo in grado di vedere il mondo attraverso i suoi occhi, ma anche perché ci offrono un così vivido esempio di ciò di cui gli artisti e noi tutti abbiamo bisogno, vediamo e per il quale viviamo».La parte iniziale del volume — che accompagna le mostre italiane dedicata all’artista, la prossima a Forma Meravigli di Milano dal 20 novembre al 31 gennaio 2016, dopo la prima chiusasi ieri al Man di Nuoro — è costituita infatti da una ricchissima biografia della misteriosa fotografa, nata a New York nel 1926, cresciuta in Francia e poi tornata negli Stati Uniti, ed è illustrata da numerosi scatti in gran parte inediti. Tra questi, alcuni documentano gli effetti personali della fotografa, così come gli oggetti collezionati nella sua vita e mai prima d’ora visti, che danno conto della sua ossessione per la documentazione e l’accumulo, essenziali per ricostruirne il profilo artistico, oltre che biografico. Segue una nutrita raccolta di altre immagini, scattate soprattutto tra New York e Chicago, da cui emergono gli elementi chiave della sua raffinata poetica e del suo modo di avvicinarsi al soggetto.Dalle immagini proposte — che vanno dagli inizi degli anni Cinquanta alla fine dei Settanta — risaltano la grande curiosità e l’acume nel cogliere i tratti caratteristici della società americana, nonché la predilezione per la fotografia in strada. L’autrice sceglie casualmente i soggetti da ritrarre, attratta di volta in volta da un personaggio o da una scena interessante, mostrando in ogni caso grande attenzione alla composizione dell’inquadratura. Raramente si lascia affascinare dall’architettura o dal paesaggio. Vivian Maier ama fotografare per lo più le persone nella loro quotidianità. Il suo mondo è fatto di anonimi personaggi ai quali si avvicina sempre con una certa discrezione, mantenendo la dovuta distanza e senza mostrare una particolare empatia se non per gli emarginati da una società in cui si avvertono ancora le conseguenze della grande depressione. E se verso gli ultimi si accosta con una certa sensibilità, alla borghesia medio alta riserva invece uno sguardo spesso sarcastico, ritraendola in situazioni e posture comiche. Non mancano i bambini, quelli a lei affidati. Spesso, infatti, se li porta dietro nelle sue scorribande fotografiche in giro per la città, dal centro ai sobborghi, facendone oggetto dei suoi scatti.Nel mondo che racconta — ed è una particolarità  significativa — non di rado riserva un posto anche per lei. Infatti, oltre a numerosi autoritratti, sono molti gli scatti in cui l’autrice compare, riflessa perlopiù su un vetro o in uno specchio, o come semplice silhouette in un’ombra, divenendo essa stessa parte del racconto. Un’insistenza, questa, che sembra celare una spasmodica ricerca di sé nella realtà che ritrae.Il libro dà conto anche degli aggiornamenti tecnologici avvenuti nel corso degli anni, ai quali l’artista non si sottrasse. Gli scatti degli anni Settanta raccontano infatti il cambio del punto di vista, dovuto al passaggio da una Rolleiflex a una Leica, che obbligò Maier a portare la macchina fotografica dall’altezza del ventre a quella dell’occhio, offrendole nuove possibilità di racconto. Così come avvenuto con l’utilizzo, sempre moderato ma alla fine più frequente, del colore.In ogni caso, oltre alla straordinaria capacità di osservazione — pochi scatti se non uno solo per ogni situazione  — e all’abilità nel comporre la scena, nell’opera di Vivian Maier colpisce la naturalezza con la quale è in grado di cambiare registro, passando da un punto di vista puramente cronachistico a quello della commedia, dal ritratto alla narrazione. E questo senza rinunciare al proprio stile. Uno stile in cui peraltro sembra rispecchiarsi, forse persino anticipando qualcosa, buona parte, della fotografia statunitense del Novecento — si pensi ad esempio a Elliott Erwitt, a Berenice Abbot e soprattutto a Helen Levitt — e nella cui storia Maier è entrata prepotentemente, ipotecando un posto di tutto rilievo. E più di un libro dovrà essere doverosamente aggiornato.
(©L'Osservatore Romano –  20 ottobre 2015)Didascalie:in alto - Autoritratto, 1954 © Vivian Maier/John Maloof Collectionin basso - Settembre 1953. New York, NY © Vivian Maier/John Maloof Collection

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :