Kammerspiel nell’aula di un tribunale ebraico, Viviane è una ricostruzione coinvolgente del diritto di famiglia israeliano. Un film girato quasi interamente in soggettiva che sfrutta la dialettica per lasciare inchiodato lo spettatore alla poltrona.
Nel tribunale religioso di una località israeliana si esamina la richiesta di divorzio di Viviane Ansalem, che da tre anni ha lasciato il domicilio coniugale per incompatibilità con il marito Elisha. Per la legge israeliana Viviane è un’emarginata sociale e non aiuta il comportamento del marito che, non essendo d’accordo con la scelta della moglie, decide di non presentarsi di fronte ai giudici. La legge, inizialmente, non può costringere Elisha, ma il suo atteggiamento snerva i rabbini e i rispettivi avvocati. La vicenda si trascina, tra rinvii continui, per cinque anni.
Ultimo capitolo della trilogia firmata Ronit Elkabetz e dal fratello Shlomi, Viviane è un prodotto intenso, puro e drammaticamente coerente. Un film che rapisce, permette di rimanere concentrati e recettivi e che utilizza l’unico spazio (un’aula di tribunale) per allargare, idealmente, il tema trattato. La pace domestica, tutelata dal tribunale rabbinico, viene sviscerata e abilmente sezionata, la figura della donna viene costantemente traslata attraverso pregiudizi e mancanze, mentre la figura (importante e ingombrante) dell’uomo viene perennemente difesa in modo quasi innaturale. È lo sguardo che ci suggerisce qualcosa, che interpella lo spettatore, trovatosi catapultato all’interno dell’aula di tribunale in modo partecipativo. Inoltre non è un caso che la scelta dei due registi sia quella di prediligere la soggettiva, come se chiedessero progressivamente al pubblico se tutto quello che sta accadendo può essere tollerato. Ed è sicuramente per questo motivo che Viviane è un prodotto decisamente apprezzato in Occidente, nel quale una situazione di tale sopruso e non accettazione dei diritti della donna è intollerabile e irreale.
Tuttavia ciò che convince in modo lampante e diretto è l’uso della macchina da presa (formale, ma estremamente coinvolgente), un uso perlustrativo, che va a inchiodare gli sguardi, a carpire gli stati d’animo e l’insoddisfazione generale. Non importa se l’unità di luogo è fissa, il contesto che ingloba Viviane, la reiterazione linguistica formale del rito e la finezza di scrittura sono i veri protagonisti di un dramma opprimente, che scandisce con cartelli sempre più snervanti il passare del tempo.
Viviane coinvolge e grazie alla sua immediatezza riesce a farsi baluardo del diritto di divorzio e strumento di indagine della comunità ebraica. Un film che brilla di luce propria e che non ha paura di spingersi oltre e di toccare qualche tasto scomodo, di sicuro impatto emotivo.
Uscita al cinema: 27 novembre 2014
Voto: ****