Vizi capitali: lussuria

Creato il 14 giugno 2011 da Catone
MARIO DONIZETTI
Tavola Introdotta da terzine della Divina Commedia di Dante Alighieri

LUSSURIA
Io venni in luogo d’ogni luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina:
voltando e percotendo li molesta.
(Inf. V, 28-33)
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
(Inf. V, 37-39)
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fe’ licito in sua legge
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, in cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra [Egitto] che ’l Soldan corregge.
L’altra [Didone] è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo [re di Tiro];
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi il grande Achille,
che con amore al fine combattèo.
Vedi Parìs [Paride], Tristano"; e più di mille
ombre mostrommi, e nominommi, a dito
(Inf. V, 55-68)
"Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense".
(Inf. V, 100-107)
E quella [Francesca] a me: "Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
(Inf. V, 121-126)
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante".
(Inf. V, 127-138)
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra;
ond’ir ne convenìa dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temea il foco
quinci, e quindi temea cader giuso.
(Purg. XXV, 112-117)
e vidi spirti per la fiamma andando;
(Purg. XXV, 124)
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.
(Purg. XXV, 133-135)
la nova gente: "Soddoma e Gomorra";
e l’altra: "Nella vacca entra Pasife,
perché ’l torello a sua lussuria corra".
(Purg. XXVI, 40-42)
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito,
(Purg. XXVI, 82-84)
come l’angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor della fiamma stava in su la riva,
e cantava "Beati mundo corde!"
in voce assai più che la nostra viva.
(Purg. XXVII, 6-9) Pittura fatta di misura, equilibrio e purezza anche quando raffigura il vizio della Lussuria. L’insieme si ordina come un gruppo scolpito in scorci audacissimi di corpi ravviciati in un sensuale groviglio di gambe. Spazio risonante di gemiti. Espressione perduta, di chi si è perduto nella lussuria. Il serpente vi si annida avido. L’atto sessuale, per sé sacro, viene così inserito nel contesto del male a causa dell’abuso di chi segue "come bestie l’appetito".
"La lussuria è una piaga misteriosa nel fianco della specie - scrive Bernanos -. Che dico, nel suo fianco? Alla fonte stessa della vita". Riserva tutto il piacere al corpo. Ma il corpo, separato dallo spirito, si preclude quella pienezza di gioia dell’anima capace di appagare anche il corpo. La rivoluzione sessuale del nostro secolo sta ancora volando basso tra piaceri occasionalmente consumati, talvolta offerti dal mercato o garantiti da un farmaco. È ancora lontana dalla capacità di armonizzare anima e corpo mentre l’esasperata idolatria della bellezza esteriore e della giovinezza ci aliena dal nostro corpo personale imperfetto, non meno importante dello spirito come meravigliosamente scrive il poeta inglese John Donne (1572-1631): "Così debbono le anime elevate / degli amanti adattarsi agli affetti / che si posson raggiungere coi sensi: / altrimenti un gran bene andrà perduto. / Rivolgiamoci ai corpi e concediamo / anche ai meno virtuosi un po’ d’amore. / I misteri d’amore sono nell’anima / ma è nel corpo ch’è posta la sua essenza".
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