Tavola Introdotta da terzine della Divina Commedia di Dante Alighieri
SUPERBIA
Lo naturale [amor] è sempre sanza errore, ma l’altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore. (Purg. XVII, 94-96)
È chi [superbo] per esser suo vicin soppresso spera eccellenza, e sol per questo brama ch’el sia di sua grandezza in basso messo; è chi [invidioso] podere, grazia, onore e fama teme di perder perch’altri sormonti, onde s’attrista sì che ’il contrario ama; ed è chi [iracondo] per ingiuria par ch’aonti, sì che si fa della vendetta ghiotto, e tal convien che il male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giù di sotto si piange... (Purg. XVII, 115-125)
"Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s’è l’ombra sua qui furïosa. Quanti si tengon or là su gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!". (Inf. VIII, 46-51)
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire come Dio vuol che ’l debito si paghi. (Purg. X, 106-108)
Ed elli a me: "La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, (Purg. X, 116-117)
Come per sostentar solaio o tetto, per mensola tal volta una figura si vede giugner le ginocchia al petto,
[...sotto a quei sassi... così fatti vid’io color...] (Purg. X, 130-132, 119-135)
Vero è che più e meno eran contratti secondo ch’avìen più e meno a dosso; e qual più pazienza avea nelli atti, piangendo parea dicer: "Più non posso". (Purg. X, 136-139)
quell’ombre orando, andavan sotto il pondo, (Purg. XI, 26)
purgando la caligine del mondo. (Purg. XI, 30)
"E s’io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar convienmi il viso basso", (Purg. XI, 52-54)
"L’antico sangue e l’opere leggiadre di miei maggior mi fer sì arrogante, che, non pensando alla comune madre, ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, ch’io ne mori’; come, i Sanesi sanno" (Purg. XI, 61-65)
Credette Cimabue nella pintura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura: (Purg. XI, 94-96)
Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato. (Purg. XI, 100-102)
Colori freddi per la fredda Superbia, così presa d’amore di se stessa da credersi superiore fino al disprezzo degli altri ridotti a manichini ai suoi piedi.
Viso altero, sdegnoso, inavvicinabile, insolente. Occhi di ghiaccio. Tutto intorno diviene un deserto di solitudine.
La casa con piccole e poche finestre è torre e fortezza con feritoie, dove rinchiudersi e separarsi dagli altri.
Triste è il volto della Superbia incapace di uscire dal proprio "Io" e di andare verso l’altro, incapace di quella umiltà "ov’è perfetta letizia", incapace della cordialità, che è rapporto con gli altri uomini a cuore aperto. Da lei, secondo Bernardo di Chiaravalle, dipende ogni altro vizio dell’uomo, perciò la si incontra nella più bassa delle sette cornici del Purgatorio dantesco, oppressa dal peso di pesanti macigni che curvano i peccatori sino a terra. È la prima delle sette "P" da cancellare per ascendere alla felicità del Paradiso.
Per Superbia Lucifero da Angelo divenne Demone precipitato negli Inferi. Per Superbia Adamo ed Eva furono cacciati dall’Eden. Per Superbia i tiranni di ieri e di oggi, accecati dall’orgoglio delle proprie ricchezze e del proprio potere, sono causa continua di ingiustizie, di distruzione, di morte. Intorno non hanno che una distesa di manichini: servi mutilati nello spirito, o ribelli martirizzati nel corpo.
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