Paul Thomas Anderson riparte da Thomas Pynchon, adattando e dirigendo uno dei suoi romanzi più popolari e cavalcando quella vena scanzonata e ironica di cui aveva spesso decantato le lodi e mai esposto integralmente sotto i riflettori. Neanche a dirlo si affida al corpo, ma soprattutto alla faccia, di Joaquin Phoenix, impeccabile nell'interpretazione dello strafatto e innamorato detective a rischio paranoia, impelagato in una indagine da cui non pare esserci alcuna via di fuga, se non quella di proseguire verso gli infiniti indizi raccolti e vedere fin dove la realtà può superare il trip stupefacente offerto dalle sostanze farmacologiche di cui lui stesso non intende privarsi. Eppure "Vizio Di Forma" è assai meno complesso di quel che apparentemente vorrebbe sembrare, una pellicola che dietro i continui capovolgimenti di fronte mantiene saldo un romanticismo e un buonismo - quello del protagonista - tanto semplice quanto solido e irriducibile. Ogni cosa infatti ruota attorno all'amore di Doc per la sua ancora amata Shasta, la donna per cui non ha smesso di provare sentimenti e che intende ritrovare ad ogni costo. La paura di averla persa per sempre e la speranza di poterla riavere tra le braccia, muove Doc alla scoperta di personaggi e luoghi in grado di superare qualsiasi fantasia e logica, una ricerca assurda, pericolosa, dalle forti caratteristiche psichedeliche, che non cesserà neppure a obiettivo raggiunto, mossa da un secondo istinto umano che consacra Doc a personaggio dolce e passionale.
Messa sullo sfondo della Los Angeles degli anni settanta, "Vizio Di Forma" non perde occasione di rivolgere una denuncia a quell'America e al suo sogno, denuncia che seppur poggiata sullo sfondo, è responsabile di ogni azione e reazione esercitata dai personaggi connessi e in relazione con Doc. La droga allora, oltre che passatempo ufficiale e industria dal raccolto economico stratosferico, diventa la medicina di coloro che non sopportano la nuova vita americana, una vita che Anderson non descrive per filo e per segno, ma che tramite la voce fuori campo che a singhiozzo racconta la storia, definisce priva di futuro e di illusioni, decisa appunto da un fato al quale sarebbe meglio sfuggire piuttosto che entrarci in contatto.
Sono forse gli unici collegamenti che stringono questo suo ultimo lavoro alla sua filmografia, che rendono la pellicola il proseguimento della carriera di un autore magnifico al quale interessa scavare e cercare, da ogni punto di vista, gli effetti collaterali di un paese che per quanto venga costantemente inquadrato come sinonimo di sogno e possibilità, conosce benissimo anche le espressioni di catene e demoni. Nonostante si ostini a far finta di niente.
Sarà forse questo, dunque, il vizio intrinseco di Anderson, quella peculiarità che fa parte della sua natura e a cui per quanto lui possa sforzarsi non potrà comunque sfuggire. Un po' come per Doc è l'amore e il miraggio di una felicità possibile e costante.
Insomma, sebbene da queste parti preferivamo vivere le esplosioni impulsive dei tempi de "Il Petroliere", dobbiamo ammettere che lasciarsi coinvolgere dalle esperienze cinematografiche di Paul T. Anderson, ogni volta, è un esperimento decisamente affascinante.
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