Dev’essere così anche per il romanzo di Thomas Pynchon, adattato per l’occasione da Paul Thomas Anderson: un noir in cui i valori umani restano quelli di Dashiell Hammet ma la forma è un oggetto peculiare cucito da Pynchon. Quello che ricordiamo è l’atmosfera hippie, gli anni ’70 trattati con tanta amichevole nostalgia e presi in giro un attimo dopo; le piccole manie di Doc, apparentemente indifeso e fuori dal mondo e comunque in grado di cavarsela. È l’atmosfera in cui siamo immersi a contare più di ogni altro aspetto, ed è resa così sguaiatamente comica da tante piccole preoccupazioni sui mezzi specifici che il cinema ha disposizione. Il rallentatore al momento giusto, la voce narrante che sa quando coprire l’audio di una scena, la capacità di mettere in scena un romanzo preservandone lo spirito e contaminandolo con il proprio stile.
Anche avere a disposizione un grande attore può far comodo. Joaquin Phoenix ha dichiarato che il personaggio disegnato da Pynchon lo ha ispirato tantissimo ma noi dubitiamo che, leggendo il libro, ce lo saremmo immaginato così efficace (senza voler sminuire il soggetto di partenza). Lo sguardo perso nel vuoto quando i clienti raccontano a Doc i loro problemi, subito seguìto dallo scribacchiare note ironiche o antifrastiche, è quello che Phoenix sa comporre. La concentrazione con cui esegue i gesti più banali come profumarsi i piedi senza averli lavati, che in un cervello pieno di erba devono sembrare imprese titaniche, è la sua. Se pensiamo che lo stesso attore e lo stesso regista, nel 2012, hanno costruito The Master, possiamo farci un’idea della duttilità di Phoenix, transitato da un estremo (gestire a stento le proprie devianze e la propria “irrequietezza”) all’altro (raggiungere un mondo che corre più veloce di lui e prova sempre a fregarlo).
Ecco la recensione su Cinema4stelle.
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