Quinta parte (che ho diviso in due), la più sostanziosa, per chi ha il coraggio di leggersela tutta d'un fiato aspetti anche la seconda! (Puntata precedente:
IV.Il "non sistema monetario internazionale")
La moneta unica
5.1 Il danno
In particolare, questa non è la strada seguita finora nella
costruzione dell’Unione economica e monetaria (Uem) europea. Si arriva
così all’ultimo capitolo, il più doloroso per l’autore in quanto
cittadino, ma il più carico di soddisfazioni per l’economista. Perché
una cosa è certa: il collasso della zona euro, rinviato, ma
probabilmente inevitabile, è innanzitutto un’amara vittoria della
professione economica, che attraverso i suoi esponenti più qualificati
aveva messo in guardia contro i pericoli di un simile progetto,
decisamente eccessivi rispetto ai benefici attesi.
Ci vuole poco a spiegarlo. Il beneficio atteso di una unione
monetaria è ovvio: la riduzione dei costi di transazione dati
dall’incertezza del cambio. Vige un’illusione ottica: questo vantaggio
sembra rilevante, ed è quindi spendibile politicamente, perché è
“vicino” al cittadino. Ma l’impatto macroeconomico è minimo[33].
In effetti, dal punto di vista macroeconomico l’idea stessa di unione
monetaria è contraddittoria. A rigor di logica, se un gruppo di paesi
avesse istituzioni, politiche e fondamentali macroeconomici
perfettamente allineati, sarebbero tali anche i rispettivi tassi di
cambio, e i costi della loro incertezza sarebbero trascurabili[34].
L’unificazione monetaria si rende quindi necessaria solo laddove i
sistemi economici considerati non sono omogenei e non esistono forze che
tendono a far convergere spontaneamente le rispettive valute. In altre
parole,
l’unificazione monetaria si rende necessaria solo laddove è
dannosa, cioè solo laddove implica la rinuncia a un elemento di
flessibilità (quella del cambio) utile per assorbire shock o compensare
divergenze strutturali. Per questo la teoria delle aree valutarie ottimali (AVO) è esplicitamente impostata in termini di
riduzione del danno, e la scienza economica ammette che la scelta dell’unificazione monetaria risponde a
logiche di tipo politico,
le sole in grado di giustificarla, nonostante essa venga spesso
presentata (slealmente) agli elettori come una scelta di carattere
tecnico-economico[35].
La scienza economica dice che la rigidità introdotta abbandonando la
flessibilità del cambio deve essere compensata in altri modi, e ne
indica molti: una maggiore mobilità dei fattori di produzione (come sa
bene il Sud dell’Italia), una maggiore flessibilità dei salari (come sta
imparando la Grecia), una maggiore diversificazione produttiva (che
aiuta il paese a superare difficoltà specifiche in un determinato
settore industriale – un criterio che, guarda caso, sfavorisce ancora
una volta le piccole economie periferiche). Se questo manca, occorre
almeno che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano:
altrimenti i paesi a minore inflazione, potendo offrire beni a prezzi
sempre più convenienti, andranno in surplus, diventando esportatori di
merci e quindi di capitali verso i paesi a maggiore inflazione, che a
loro volta diventeranno finanziariamente fragili (perché importatori di
capitali). In assenza di un simile allineamento, bisogna che le
istituzioni che governano l’economia siano progettate per poter ovviare
“a valle” agli squilibri regionali, prevedendo un sistema efficiente e
politicamente condiviso
che in caso di crisi consenta trasferimenti dalle zone in espansione a
quelle in recessione: si chiama integrazione fiscale, ed è quanto ha
contribuito a tenere in piedi per 150 anni un’altra unione non
particolarmente felice dal punto di vista economico, quella italiana, a
prezzo di ovvie tensioni politiche[36].
Inutile ricordare che in Europa non c’è nulla
di tutto questo.
Mercati del lavoro e sistemi previdenziali sono disomogenei, il che
spiega perché l’integrazione monetaria non ha portato a una convergenza
dei fondamentali, ma ha solo facilitato il finanziamento degli squilibri
in una specie di “Bretton Woods II” alla rovescia[37]: mentre a livello globale è il paese più povero (la Cina) a finanziare la propria crescita
export led
prestando fondi a quello più ricco (gli Stati Uniti), a livello
regionale è il paese più ricco (la Germania) che finanzia la propria
crescita
export led prestando fondi ai paesi più poveri (quelli
periferici dell’eurozona). Questi hanno così visto aumentare il proprio
debito estero, mentre quello pubblico diminuiva, o restava stazionario,
a riprova del fatto che la crisi trae le proprie origini
dall’indebitamento dei settori privati della periferia (Fig. 2). Al
primo shock importante, il sistema, finanziariamente fragile e
irrigidito dalla fissità del cambio e da regole fiscali poco sensate, è
andato in pezzi: l’intervento pubblico a sostegno del sistema
finanziario ha trasformato il debito da privato a pubblico, anzi,
pardon,
“sovrano”, e ora motivi di convenienza politica suggeriscono di
ignorare
il fatto che nel primo decennio dell’euro le finanze pubbliche
dell’eurozona si erano in effetti consolidate, e che i problemi sono
sorti per l’irresponsabilità della finanza privata, che ha prestato a
chi evidentemente non poteva restituire, per motivi non dissimili a
quelli evidenziati già da Keynes[38].
Tutto prevedibile, tutto previsto. Rudiger Dornbusch aveva avvertito
che, trasferendo il peso dell’aggiustamento dal cambio al mercato del
lavoro, l’euro avrebbe condannato l’Europa a recessione e
disoccupazione, mettendo alle corde in particolare l’Italia; Martin
Feldstein aveva criticato come particolarmente dannosa l’assenza di
procedure formali di uscita dall’eurozona, che rischiava di condurre a
una accresciuta conflittualità intra-europea; perché, come diceva Paul
Krugman, l’euro non è stato fatto per rendere felici tutti, ma per
rendere felice la Germania, e, come incalzava Martin Feldstein,
l’aspirazione francese all’uguaglianza è incompatibile con le
aspettative tedesche di egemonia. E se questi problemi non vengono
risolti, passare all’unione monetaria, concludeva Dominick Salvatore, è
come mettere il carro davanti ai buoi[39].
Ma in Italia mettere il carro davanti ai buoi viene ancora spacciato da molti per “visione”. A pagamento.
Figura 2 – L’incremento del debito pubblico e di quello estero
nei paesi periferici dell’eurozona fra il 2000 e il 2007, espresso in
punti di Pil. La figura mostra che (con l’unica eccezione del
Portogallo), nel periodo pre-crisi tutti questi paesi hanno ridotto il
debito pubblico (Irlanda, Italia, Spagna), o lo hanno mantenuto
stazionario (Grecia), mentre in tutti questi paesi è aumentata
l’esposizione finanziaria verso l’estero, che quindi traeva origine dal
settore privato (come nota De Grauwe, op. cit.). I dati confermano che
la genesi della crisi attuale ha poco a che fare col debito “sovrano”.
5.2 Le regole che ci sono...
Il costo di questa “visione” è reso salato dalle regole che governano
l’eurozona, regole che aggiungono asimmetria e rigidità a un sistema
già di per sé indebitamente sclerotizzato dall’abbandono della
flessibilità del cambio. Asimmetria e rigidità non fondate nella teoria
economica e quindi puramente ideologiche. Ideologia, aggiungo, che
trapela sia dalle regole che l’unione si è data, sia da quelle che non
si è data.
Cominciando da quelle che si è data, tutti hanno sentito parlare dei
criteri di convergenza di Maastricht: per entrare, e poi per restare,
dentro l’eurozona, occorre (fra l’altro) che il rapporto fra deficit
pubblico e Pil rimanga sotto al 3%, mentre quello fra debito pubblico e
Pil deve essere inferiore al 60%[40]. La convergenza verso questi criteri è stato il “tormentone” degli anni ’90. Rimane un dato fondamentale:
il
requisito che i paesi appartenenti a un’unione monetaria debbano
“convergere” verso dei comuni parametri fiscali non è fondato in alcuna
teoria economica. In particolare, la
convergenza fiscale
(cioè il fatto di avere tutti lo stesso rapporto deficit/Pil) non è un
requisito delle aree valutarie ottimali, che richiedono invece
integrazione
fiscale (cioè la possibilità di trasferire rapidamente risorse dalle
aree in espansione a quelle in recessione). Un semplice riscontro ce lo
conferma: la teoria delle aree valutarie ottimali è stata formulata nel
1961 da Robert Mundell[41],
ma se si effettua sulla base dati bibliografica EconLit una ricerca con
le chiavi “convergence” e “currency area” il lavoro scientifico più
antico risale al febbraio 1992, subito
dopo la firma del
Trattato. Chiaro, no? L’idea che in un sistema reso rigido
dall’abbandono della politica valutaria i problemi si risolvano
ingessando anche la politica fiscale era tanto assurda da non poter
venire nemmeno a un feticista del “controintuitivo”[42].
In effetti, è stata la politica a dettare l’agenda all’economia (e non
il contrario, come ora la politica vorrebbe far credere). E l’economia
ha raggiunto abbastanza presto la conclusione che le regole di
convergenza fiscale, oltre a essere indebitamente stringenti in termini
di sostenibilità delle finanze pubbliche[43],
erano controproducenti perché incompatibili con il tasso di crescita di
lungo periodo dell’economia europea, perché limitavano lo spazio di
manovra dei paesi in risposta a shock, e infine perché se da una parte
il loro rispetto avrebbe determinato l’annientamento fiscale (
fiscal overkill)di alcuni paesi, dall’altra il mancato rispetto avrebbe minato la credibilità dell’intero Trattato[44].
Credibilità puntualmente compromessa dal fatto che la regola del debito
non è stata applicata (perché applicandola si sarebbe dovuto lasciar
fuori il Belgio, un paese appartenente all’area del marco), e dal fatto
che il primo paese a violare la regola del deficit (nel 2002) è stato
quello che aveva più insistito per imporla: la Germania[45].
Che fare la voce grossa rischi di rendere poco credibili è un dato
dell’esperienza di ogni genitore assennato. Così come è esperienza di
ogni insegnante che atteggiamenti da “primi della classe” minano la
coesione del gruppo. E immancabilmente il Trattato di Maastricht,
scritto dai “primi della classe”, premia questi atteggiamenti, ponendo i
germi della disgregazione futura dell’Unione Europea. Ciò avviene
stabilendo che possano accedere all’Unione solo i paesi che hanno un
tasso di inflazione non superiore di più di 1.5 punti alla media dei tre
“best performing” (i primi della classe, appunto). Il requisito che i
tassi di inflazione dei partecipanti siano uniformi è giustificato e
razionale, lo abbiamo detto sopra, ma la regola adottata ha un problema:
è asimmetrica. Sposando il principio semplicistico che “l’unica
inflazione buona è quella morta”,
Maastricht attribuisce la patente di
“primi della classe” ai paesi con l’inflazione più bassa. Ora, mentre la
teoria economica non fornisce un credibile sostegno all’idea che chi ha
l’inflazione più bassa sia per forza “migliore”[46], d’altra parte è certo che in una unione monetaria
chi
tiene la propria inflazione sistematicamente al di sotto di quelle
degli altri sta praticando una svalutazione reale competitiva.
Detto in altri termini: la razionalità economica vorrebbe che, in un
contesto nel quale una banca centrale indipendente fissa un obiettivo di
inflazione, venisse “punito” non solo chi se ne discosta al rialzo, ma
anche, simmetricamente, chi se ne discosta al ribasso, perché sta
attuando una politica
beggar-thy-neighbour.
Ed è proprio questo l’obiettivo della Germania fin dal secondo dopoguerra, per
ammissione esplicita
degli stessi responsabili della sua politica economica. Già nel 1951 il
presidente della futura Bundesbank, Wilhelm Vocke, affermava che
“incrementare le esportazioni è vitale per noi, e ciò dipende dal
mantenimento di un basso livello di prezzi e di salari... Mantenere il
livello dei prezzi inferiore a quello degli altri paesi è l’obiettivo
principale dei nostri sforzi[47].”
Non volete andare così indietro nel tempo? Allora leggete sul Corriere
della Sera del 4 dicembre 2011 l’intervista a Roland Berger, consulente
del governo Merkel: sono i “sacrifici” dei lavoratori tedeschi fra il
2000 e il 2010 che hanno permesso ai prezzi dei prodotti tedeschi di
diminuire del 18.2% rispetto a quelli dell’eurozona, aumentando
competitività ed esportazioni tedesche. Da 60 anni a questa parte la
politica economica tedesca persegue il
current account targeting: l’obiettivo
dichiarato è quello di avere sempre un po’ meno inflazione degli altri, per poter essere sempre in surplus e accumulare crediti
verso il resto dell’Europa. Che sono debiti (per lo più privati)
del resto dell’Europa. Questa non è la logica di una unione.