Vogliamo Vivere!: l’Artificio che si fa Storia, tra Risata e Citazione

Creato il 24 giugno 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Valeria Arena 24 giugno 2013

Con il cinema, così come con la letteratura e la musica, si può fare di tutto, anche riscrivere la storia. Non mi riferisco al più recente Bastardi senza gloria, un film fondamentalmente inutile e insignificante, affermazione a cui sono arrivata dopo parecchio tempo, perché anche io, come la maggior parte degli spettatori cinematografici, sono rimasta spesso affascinata dalla capacità di Tarantino di rendere coinvolgente il nulla, e i suoi seducenti giochi manieristici. Nonostante tutto, non lo ringrazieremo mai abbastanza per aver reso popolare un attore straordinario come Christoph Waltz, probabilmente la sua unica ancora di salvezza. Se la sua trilogia della vendetta (lo so, il cinema di Tarantino ha sempre raccontato vendette e rivincite, quasi in loop), a cui manca ancora l’ultimo tassello, è puro virtuosismo in ogni inquadratura e dialogo, l’opera di Ernst Lubitsch targata 1942, Vogliamo vivere! (To Be or Not to Be il titolo originale), per i puristi come la sottoscritta, è uno dei capolavori indiscussi della storia del cinema. È la rappresentazione che diventa realtà perché sa spiegare in maniera esaustiva ciò a cui si riferisce, dimostrando di conoscerlo alla perfezione. Quindi, se Tarantino ripercorre e riscrive la storia per puro divertimento e vanagloria, i tratti distintivi della sua carriera cinematografica, Lubitsch fa quello che i più grandi hanno sempre fatto con e attraverso la materia artistica: ridicolizzare gli aspetti più discutibili dell’umano.

Mi rendo conto che il paragone è infausto, il “tocco alla Lubitsch” è qualcosa che ti porti dietro sin dalla nascita, qualcosa che fa parte del tuo corredo genetico, e i capolavori che ti permette di creare non solo non sono paragonabili a quelli di Tarantino, ma non hanno età. La versione restaurata e rimasterizzata di Vogliamo vivere! è infatti tornata al cinema poco tempo fa, con un successo di botteghino inaspettato se consideriamo il periodo e le poche copie distribuite. La morale qual è? Che le pellicole in bianco e nero hanno un fascino maggiore rispetto a quelle a colori? Che il vecchio è sempre migliore del nuovo? Che l’effetto nostalgia ha una potenza incontrastabile? O che di capolavori alla Lubitsch non ne fanno più? Un’ulteriore domanda sorge spontanea: se proiettassimo nelle sale, almeno una volta al mese, opere di questo livello, magari di vecchia data, il pubblico italiano andrebbe al cinema volentieri, e più spesso? O basterebbe solo fare dei film belli e rilevanti, e non pastrocchi all’italiana?

Ciò che ha reso grandi, tra le altre cose, personaggi come Allen o Moretti è stata la capacità di creare, in ogni lavoro, citazioni alla portata di tutti, tormentoni da esibire come fossero propri, richiami perfetti per ogni occasione. Perfetti perché assolutamente reali. Ecco, in Vogliamo vivere! il numero dei potenziali tormentoni è abbastanza elevato, e meriterebbe una menzione a parte, o magari anche un libro, ma vi basta sapere che, per chi conosce bene questa pellicola, la risposta «heil per me» è un pezzo di cuore. Senza contare il meraviglioso dono della sintesi: saper spiegare con tre parole, tra l’altro monosillabiche, quello che milioni di libri non hanno saputo fare in duecento pagine; tutto questo riuscendo a far ridere. Qui ritorniamo alla sagace capacità di raccontare la storia suscitando ilarità, quindi al sapere scrivere una sceneggiatura di ferro, comprendendo che i dialoghi hanno un’importanza enorme. A tale riguardo, l’unico, non considerando Moretti perché di un’altra categoria, che nel nostro paese è stato in grado di spiegare al grande pubblico la differenza tra destra e sinistra, senza ricorrere al tanto amato cinema d’autore autoreferenziale accartocciato su se stesso, è stato Paolo Virzì con il suo Ferie d’agosto (sono in momenti come questi che mi rendo conto che il concetto di ricambio generazionale in Italia è un tasto dolente).

Dicevo, Lubitsch possiede una qualità fondamentale per chi decide di fare cinema: il saper scrivere, e il saper farsi comprendere, anche se in realtà la sceneggiatura di Vogliamo vivere! è firmata da Edwin Justus Mayer. Proprio in questi giorni, in riferimento all’ultimo film di Sorrentino, La grande bellezza, la rete brulicava di numerosi dibattiti relativi al ruolo della sceneggiatura e di una linea narrativa precisa all’interno di un’opera cinematografica; lo stesso regista ha affermato di essersi accostato, e di preferire, soprattutto in età matura, uno stile narrativo ellittico, quello del «dico e non dico», probabilmente per colmare i buchi una mancata ispirazione. Quando però non si ha niente da dire, non si può far leva su splendidi paesaggi, carrellate mozzafiato e frasi ad effetto, magari imitando anche i più grandi. Fellini aveva Flaiano quando dovette fare i conti con una crisi professionale, mentre Sorrentino si è ritrovato Contarello. La storia è stata maligna. Ecco, Lubitsch ci ricorda l’importanza di una storia, di una linea narrativa forte, di idee, e di dialoghi che sanno dove andare: «Perché abbai? Per farmi capire dai cani».

Perché Lubitsch ha realizzato Vogliamo vivere!? Perché probabilmente il suo tocco sarebbe stato l’unico in grado di ridicolizzare i pilastri del nazismo con una sceneggiatura di quel calibro. Era il 1942, e c’era ancora la guerra. Il regista tedesco però andava oltre, raccontava le dinamiche di una compagnia teatrale, in cui un marito e una moglie si trovano a dividere la scena, e in cui una comparsa deve fare i conti con il ruolo di una vita. Un gioco di maschere che incorona le potenzialità del teatro e della finzione, senza dover rincorrere al cinema impegnato di nicchia. Nessun neorealismo, ma l’artificio che si nobilita. Provate voi a fare una commedia che parla di nazismo, in cui la rappresentazione fittizia diventa la chiave di volta per la risoluzione del problema, in cui i dialoghi sono più che brillanti, e in cui si cita Shakespeare. Altro che Chaplin, altro che Benigni. È il tocco alla Lubitsch. E se lo dice Billy Wilder, non resta che dargli ragione.


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