Il Leonkavallo è una "non zona", congelata nel tempo e destinata a ripetere se stessa in maniera avvilente, ricordando la trama del film "Il giorno della marmotta": scegliete una qualunque serata, con concerto o senza, e il panorama che vi si presenterà sarà sempre ed inequivocabilmente lo stesso. Sala grande con nordafricani impegnati a fumare e ascoltare musica rap orrenda, casetta in mezzo al cortile con i soliti cinque sfigati coi bonghi (meglio se con i dreadlock in testa, che in fondo il reggae, Bob Marley, hai capito, no?), baretto in fondo con solitario suonatore di blues sul palchetto e odore di hashish, spazio concerti esterno vuoto e con musica a palla, intercambiabile con lo spazio concerti interno a seconda della stagione. Il primo gruppo di supporto (perché ce ne devono essere almeno due, se no che gusto c'è?) attacca poco prima di mezzanotte e suona quaranta minuti, il secondo idem, in modo che la band principale, quella per cui TUTTI sono venuti, inizi verso l'una e mezza, quando TUTTI si sono già rotti le palle e vorrebbero essere ovunque tranne che al Leonkavallo.
Ovviamente, essendo io duro di comprendonio e un'inguaribile ottimista, continuo ad ostinarmi ad arrivare alle undici, nella segreta speranza che qualcosa sia cambiato e invece è sempre il giorno della marmotta, al punto che sospetto persino che il pubblico misto, quello a cui non importa di nulla in particolare se non del fumo e della birra a un euro, sia sempre lo stesso. C'è il sosia di Pirlo con lo skate sottobraccio, la compagnia dei Boateng - stesso taglio da idioti, senso dello stile inesistente, tatuaggi orridi -, il tizio col banchetto che vende pipe e bong, il nero alto due metri che passa il tempo a vagare nella sala concerti senza sosta e poi, il classico dei classici, quello che inevitabilmente si piazza di fianco a me: l'ubriaco molesto. Non importano razza, colore o religione (ieri sera era nordafricano, per esempio), servono solo cinque birre medie e il gioco è fatto. Comincia col chiederti sigarette, monete, accendino - ieri, in un momento situazionista di altissimo livello, mi ha chiesto l'età, lasciandomi senza parole! - e poi prosegue biascicando parole senza senso, iniziando dieci discorsi in cui vorrebbe coinvolgerti e, infine, cercando di abbracciarti come fossi suo fratello. Un gradino oltre la soglia di sopportazione, più o meno.
Ora, se siete arrivati fino a questo punto con la lettura, vuol dire che siete curiosi e vi interessa sapere del concerto: un'ora o poco più di Confusional Quartet, con pochissime concessioni al passato, anzi direi una sola, la leggendaria "Volare", cover destrutturata del classico di Modugno, suonata a inizio set e come unico bis. E se da un lato un po' di delusione me la sono portata a casa - che bello sarebbe stato ascoltare "Orinoco Blues", "Pensione elastica" o "Bologna rock"? - dall'altra apprezzo un gruppo che si riforma trent'anni dopo lo scioglimento e non concede quasi nulla alla nostalgia, risultando attuale, contemporaneo e con un repertorio di tutto rispetto. Riconosco qualche brano tratto da "Italia calibro X", uscito qualche mese fa, e mi ascolto in anteprima i pezzi che stanno sul nuovissimo album, ancora una volta intitolato "Confusional Quartet" e basta. L'unicità del suono è ancora intatta, nel 2012 nessuno suona come loro e le caratteristiche che ho sempre amato mi provocano brividi di piacere e mi fanno quasi venir voglia di abbracciare l'ubriaco: tastierine dementi, base ritmica devastante, chitarra che rifugge accordi e riff facili per infilare strani arpeggi, un'intensità che ci si aspetterebbe da dei ventenni in piena tempesta ormonale e non da veterani del rock nazionale. Sono di parte, lo so, ma non importa: avevamo ragione nel 1980, figurarsi oggi...
Torno a casa con vinile e cd, spero di ascoltarmelo con calma nei prossimi giorni e, a parte la copertina, che trovo davvero brutta - il paragone con quella del loro storico esordio è impietoso -, sono certo che sarà un'epifania. Bentornati.