Ieri sera, vedendo questo oggetto (peraltro amorevolmente fatto dalle manine della donna grande, con gran uso di strumenti pericolosi come lame e trincetto), sono rimasto abbastanza colpito.
Non so dire in che termini.
Diciamo che la cosa mi ha fatto pensare.
Naturalmente, il messaggio per me è molto chiaro: noi siamo una famiglia che pone moooolte (troppe?...) limitazioni all'uso di oggetti tecnologici.
I nostri pargoli non posseggono nessun oggetto tecnologico personale, se si esclude un piccolo, ormai obsoleto, videogame tascabile.
Molti altri ragazzini dell'età dei nostri dispongono invece di strumenti evolutissimi, all'ultima moda: console, pc, lettori laser di onde extragalattiche, iPod, iPad, iPid, iPud and so on. Gestiscono, nelle loro "tenere" manine, oggetti che tra l'altro hanno prezzi di mercato non indifferenti, che marcano un ulteriore territorio. Un confine e, di conseguenza, un gap.
Che, naturalmente, non è soltanto tecnologico.
Inoltre, una parte di questo armamentario è ludico ma, per altri versi, si tratta anche di strumenti di lavoro, come pc e tablet.
Così, torno ad esprimere la mia consapevolezza, i pargoli ci stanno dicendo che anche loro vorrebbero gli stessi oggetti. Lo stesso status.
Non siamo d'accordo, per una lunga serie di motivi, ma sono problemi nostri, li risolveremo come potremo.
Quel che invece mi sembra utile condividere è la riflessione che continua a rimbalzarmi dentro il cervello da ieri sera in maniera ossessiva ma semplice, quasi banale. E ho fatto delle similitudini.
E' come se, dati i tempi del nostro esser stati bambini, i nostri genitori ci avessero fatto giocare con una calcolatrice elettronica o, per tornare appena un po' più indietro, con un seghetto, una vanga. Un alambicco.
Se c'è una conquista rivoluzionaria delle scienze sociali è stata la scoperta dell'infanzia come uno stato indipendente dello sviluppo umano. Non un mondo di piccoli adulti ma proprio un'altra cosa.
Così dall'infanzia dickensiana siamo passati all'infanzia compresa e protetta dei nostri tempi. I bambini sono all'improvviso e fortunatamente passati dallo status di lavoratori piccoli e malleabili e sfruttabili a quello di persone da educare, con un loro mondo fatto di scuola, giochi, educazione. Sviluppo.
Probabilmente noi quarantenni d'oggi siamo stati la prima (e, direi ormai, l'unica) generazine allevata interamente dentro questa consapevolezza: non ci hanno allevato per lavorare ma ci hanno fatto studiare, giocare, crescere serenamente.
Tutto ciò pare non ci sia bastato. Così stiamo tornando a vedere i nostri figli come macchine competitive da avviare ad un competitivo mondo della produzione. Non mi sembra di poter spiegare altrimenti la nostra folle bulimia di metterli in grado di usare strumenti che, non abbiate paura, li renderanno schiavi per il resto dei loro giorni non appena saranno abbastanza grandi da, appunto, iniziare davvero a produrre.
La motivazione è sempre la stessa, pompata da ogni mezzo di comunicazione: l'alfabetizzazione digitale, annullare il divario digitale. Damogli subito gli strumenti ultranuovi, ultramoderni, ultrafighi. Sennò saranno degli analfabeti.
Qualcuno di noi, se lo ricorda (lo sa) davvero cos'è l'analfabetismo? Io no, non l'ho conosciuto e non ho le idee chiare su cosa realmente voglia dire.
Sono però certo di una cosa: che non si combatte l'analfabetismo iniziando a leggere e scrivere a due anni. Quella è competizione, dei grandi, di noi genitori. Che passiamo ai nostri figli.
"Se mio figlio sarà in grado di spippolare su quegli attrezzi prima degli altri, sarà avvantaggiato". Per non dire "più ganzo", ma questa è ancora un'altra storia.
Allora penso che la generazione che abbiamo tra le mani, i nostri piccoli undicenni o novenni, la stiamo rimettendo in rampa di lancio. Li vediamo come macchine, come oggetti del mondo che ci siamo costruiti, tornando indietro.
E di molto, a mio modo di vedere.
Avanziamo a grandi passi verso il passato.