Volevo la Vespa.

Creato il 23 novembre 2013 da Enricobo2

dal web

Quando ero adolescente avevo un sogno. Comprarmi una Vespa. Era di certo il gadget che andava per la maggiore a quel tempo. L'elettronica ed i telefonini con le loro sirene dovevano ancora essere pensati, la Lambretta sua diretta concorrente era stata nettamente surclassata con quella sua immagine che la rendeva adatta solo ai lavoratori pendolari. I pochissimi che la possedevano tra i ragazzi, erano effettivamente dei privilegiati, guardati con invidia feroce da tutti gli altri. Naturalmente neanche ci pensavo a manifestare questo desiderio ai miei genitori. Era un non senso economico irrealizzabile, costava allora molte decine di migliaia di lire, praticamente un po' di più di uno stipendio (come ora in effetti) cosa che la metteva automaticamente al di fuori della discussione. Un ragazzo di una famiglia "normale" non valutava neppure la richiesta di una spesa simile per attuare un desiderio, sia pure violentissimo come quello. L'aspetto delle sicurezza, cioè che la famiglia si opponesse per timore che uno si facesse male, non era neppure valutato, Era una fase successiva, che data l'insussistenza della prima non era presa in discussione e neanche considerata, calcolando una dialettica apposita per vincere delle resistenze che forse neanche si sospettavano. Così nel frattempo risparmiavo ogni soldino su cui riuscivo a mettere le mani. Non infilavo le cento lire nel Juke box e non consumavo gazzose, defilandomi con cura nelle occasioni in cui ce ne fosse stata l'occasione. 

A ballare alla SOMS, al sabato sera, cercavo di entrare di straforo, magari con la scusa di aiutare a mettere a posto i tavolini, tanto poi non ballavo lo stesso, le fanciulle su piazza avevano occhi solo per i ballerini più abili ed esibenti. In realtà avrei dovuto rendermi conto che dato il ritmo di accumulo che riuscivo a tenere, dati i ristrettissimi flussi di cassa, non sarei mai riuscito a raggiungere e nemmeno ad avvicinarmi da lontano alla cifra necessaria. Diciamo che cercavo con una attenta spending review, di limare le uscite ma non riuscivo ad aumentare il PIL, per cui l'accumulo primario utile a coprire quel buco di bilancio previsto era irraggiungibile. Tuttavia non smettevo di sognare. Col gruppo degli amici si discuteva incessantemente sui vantaggi di potenza della 150 nei confronti della 125 e intanto il tempo passava. All'inizio dell'autunno la discussione si spostava ai tavoli del Bar Baleta e dato che il tempo lo permetteva ancora, sulla piazzetta fuori, davanti alla vetrina dell'Escobar, dove si radunavano schiere di ragazzotti ogni pomeriggio. Quei pochi che avevano la Vespa, arrivavano lì e la parcheggiavano con noncuranza direttamente davanti al bar, issandola con un gesto semplice sul piccolo cavalletto che stava sotto la pedana. 
Un pomeriggio pieno di sole, Luciano arrivò sgasando con la manopola, a lungo prima di spegnere il motore. La Vespa era nuova e lucidissima e tutti la guardavano con ammirazione assoluta. Si chiacchierò un po' del più e del meno, qualcuno ci si appoggiava anche col braccio, apparentemente con noncuranza, forse per gustare la sensazione di sfiorarla senza possederla, per vincere quel tipo di frustrazione affatto uguale a quella che ci davano le nostre amiche quando si riusciva ad avvinghiarle per un lento da mattonella. Dopo un po', il discorso languiva e Luciano si sedette sul sellino dicendo che voleva andare a farsi un giro fino a San Michele per provare a tirare un po' le marce. Aveva i capelli un po' lunghi, Luciano, con un ciuffo ribelle, che andava molto di moda allora tra i ragazzi, e che la velocità faceva scompigliare ancora di più. Che bello il vento tra i capelli, lo schiaffo e l'ebbrezza  di quell'aria che scorreva sulle guance tirandole indietro, facendoti pensare di essere il padrone del mondo. Non c'è pericolo nella bellezza. Rideva forte Luciano mentre l'aria gli gonfiava la camicia. Se ne andò con una serpentina tra le biciclette tenute a mano dal gruppo. 
Quando arrivò qualcuno a dire trafelato, che nella grande curva dopo il cavalcavia, la Vespa si era inclinata troppo ed era scivolata via, centrando in pieno un' auto che arrivava nella direzione opposta, si rimase tutti senza fiato. Quello che era accaduto, una cosa irreparabile e definitiva, non era stata mai neppure pensata, temuta, messa nel novero delle possibilità. Nessuno poteva commentare un evento mai calcolato e quindi impossibile. Al funerale, a Santa Maria di Castello, la chiesa era piena e muta. Una chiesa enorme, scura e umida dove avvertivi solo l'eco senza significato delle parole del prete che sfumavano su per le pareti scrostate dal tempo. Un silenzio spesso e doloroso in cui sentivi solo il pianto timido di una madre che riusciva solo a dire ogni tanto: "Vent'anni... vent'anni...". Un flebile suono che rimbombava attraverso il colonnato della grande navata per definire tutta l'inaccettabile assurdità contro natura di un genitore che segue la bara di un figlio. Non mi comperai la Vespa e neanche nessun altra moto nel resto della mia vita. Non l'ho neppure mai più desiderata. 
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