Voltaire, “Dialogo del cappone e della pollastra” (1763)

Creato il 08 novembre 2015 da Marvigar4

IL CAPPONE.

Oh, mio Dio! Gallina mia, sei proprio triste, che cos’hai?

LA POLLASTRA.

Mio caro amico, chiedimi piuttosto cosa non ho più. Una serva maledetta m’ha preso sulle sue ginocchia, m’ha ficcato un lungo ago nel culo, ha afferrato il mio utero, l’ha arrotolato intorno all’ago, l’ha strappato e dato a mangiare al suo gatto. Ed eccomi inabile a ricevere i favori del cantore del giorno e della covata.

IL CAPPONE.

Ahimè! Bella mia, io ho perduto più di te; m’hanno fatto un’operazione doppiamente crudele: né tu né io avremo più consolazione in questo mondo; loro ti hanno fatto pollastra, e me cappone. La sola idea che addolcisce il mio deplorevole stato è che ho sentito in questi giorni trascorsi, vicino al mio pollaio, parlare due abati italiani ai quali è stato fatto lo stesso oltraggio affinché potessero cantare davanti al papa con una voce più chiara. Dicevano che gli uomini avevano cominciato a circoncidere i loro simili, e che hanno finito per castrarli: maledicevano il destino e il genere umano.

LA POLLASTRA.

Che cosa? Allora è perché avessimo una voce più chiara che ci hanno privato della nostra parte più bella?

IL CAPPONE.

Ahimè! Mia povera pollastra, è per farci ingrassare e rendere la nostra carne più delicata.

LA POLLASTRA.

Bene! Quando saremo più grassi, tanto più lo faranno?

IL CAPPONE.

Sì, perché loro pretendono di mangiarci.

LA POLLASTRA.

Mangiarci! Ah, che mostri!

IL CAPPONE.

È il loro costume; ci mettono in prigione per qualche giorno, ci fanno ingoiare una poltiglia di cui hanno il segreto, ci cavano gli occhi per non farci avere alcuna distrazione; alla fine, una volta giunto il giorno della festa, ci strappano le piume, ci tagliano la gola, e ci fanno arrosto. Ci portano davanti a loro in un grande piatto d’argento; ognuno dice di noi quello che pensa; si fa la nostra orazione funebre: uno dice che abbiamo il sapor di nocciola; l’altro vanta la nostra carne succulenta; si lodano le nostre cosce, le nostre ali, il nostro scamone; ed ecco la nostra storia in questo mondo finita per sempre.

LA POLLASTRA:

Che abominevoli furfanti! Mi viene quasi da svenire. Cosa? Mi caveranno gli occhi! Mi taglieranno il collo! Sarò arrostita e mangiata! Questi scellerati non hanno proprio alcun rimorso?

IL CAPPONE.

No, amica mia; i due abati di cui t’ho parlato dicevano che gli uomini non hanno mai rimorso delle cose che hanno l’abitudine di fare.

LA POLLASTRA.

Che genia detestabile! Scommetto che mentre ci divorano si mettono anche a ridere e a raccontare barzellette come se nulla fosse successo.

IL CAPPONE.

L’hai indovinato; ma sappi per tua consolazione (se ce n’è una) che questi animali, che sono bipedi come noi, e che sono molto al di sotto di noi, poiché non hanno piume, si sono comportati così con i loro simili. Ho sentito dire dai due abati che gli imperatori cristiani e greci non mancavano mai di cavare gli occhi ai loro cugini e ai loro fratelli; che anche nel paese dove ci troviamo, c’è stato un certo Débonnaire che ha fatto strappare gli occhi al suo nipote Bernard. Ma per quanto riguarda l’arrostire gli uomini, niente è stato più comune in questa specie. I miei due abati dicevano che ne sono stati arrostiti più di ventimila per certe opinioni che sarebbe difficile da spiegare per un cappone, e che non mi importano affatto.

LA POLLASTRA.

A quanto pare li arrostivano per mangiarli.

IL CAPPONE.

Non oserei assicurarlo; ma mi ricordo bene d’aver sentito chiaramente che ci sono dei paesi, e tra gli altri quello degli ebrei, dove gli uomini qualche volta si sono mangiati a vicenda.

LA POLLASTRA.

Passi pure questo. È giusto che una specie così perversa si divori da sola, e che la terra sia ripulita da questa razza. Ma io che sono così mite, che non ho mai fatto del male, che ho anche nutrito questi mostri dandogli le mie uova, essere castrata, accecata, decapitata e arrostita! Ci trattano così nel resto del mondo?

IL CAPPONE.

I due abati dicono di no. Assicurano che in un paese chiamato India, molto più grande, più bello, più fertile del nostro, gli uomini possiedono una legge santa che da migliaia di secoli gli proibisce di mangiarci; che anche un tale di nome Pitagora, avendo viaggiato presso questi popoli giusti, aveva portato in Europa questa legge umana, che fu seguita da tutti i suoi discepoli. Questi buoni abati leggevano Porfirio il Pitagorico, che ha scritto un bel libro contro gli spiedi.

Oh, che grand’uomo! Che uomo divino era questo Porfirio! Con quale saggezza, forza, tenero rispetto per la Divinità prova che noi siamo gli alleati e i genitori degli uomini; che Dio ci ha dato gli stessi organi, gli stessi sentimenti, la stessa memoria, lo stesso ignoto germe dell’intendere che si sviluppa in noi fino a un determinato punto attraverso leggi eterne, e che mai si estinguerà né negli uomini né in noi! In effetti, mia cara pollastra, non sarebbe un oltraggio alla Divinità dire che abbiamo dei sensi per non sentire affatto, un cervello per non pensare affatto? Questa degna immaginazione, a detta loro, di un pazzo di nome Descartes, non sarebbe il colmo del ridicolo e la vana scusa della barbarie?

Nemmeno i più grandi filosofi dell’antichità ci hanno mai messo allo spiedo. S’occupavano di provare ad apprendere il nostro linguaggio e di scoprire le nostre proprietà così superiori a quelle della specie umana. Noi eravamo al sicuro con loro come nell’età dell’oro. I saggi non uccidono affatto gli animali, dice Porfirio; sono solo i barbari e i preti che li uccidono e li mangiano. Egli scrisse questo meraviglioso libro per convertire uno dei suoi discepoli che si era fatto cristiano per golosità.

LA POLLASTRA.

Bene! Hanno innalzato altari a questo grand’uomo che insegnava la virtù al genere umano, e che salvava la vita al genere animale?

IL CAPPONE.

No, fu aborrito dai cristiani che ci mangiano, e che detestano ancora oggi la sua memoria; dicono che era empio, e che le sue virtù erano false, dato che era pagano.

LA POLLASTRA.

Ma che orribili pregiudizi ha la golosità! Ho sentito l’altro giorno, in quella specie di fienile vicino al nostro pollaio, un uomo che parlava da solo davanti ad altri uomini che non parlavano affatto; esclamò che Dio aveva fatto un patto con noi e con questi altri animali chiamati uomini; che Dio aveva proibito agli uomini di nutrirsi del nostro sangue e della nostra carne. Come possono unire a questa difesa positiva il permesso di divorare le nostre membra bollite o arrosto? È impossibile, quando ci decapitano, che resti molto sangue nelle nostre vene; quel sangue si mescola necessariamente alla nostra carne; quindi disobbediscono ovviamente a Dio mangiandoci. Inoltre, non è un sacrilegio uccidere e divorare persone con cui Dio ha fatto un patto? Sarebbe uno strano accordo quello in cui la sola clausola sarebbe di consegnarci alla morte. O il nostro creatore non ha fatto alcun patto con noi, o è un crimine ucciderci e farci cuocere, non c’è una via di mezzo.

IL CAPPONE.

Questa non è la sola contraddizione che regna in quei mostri, i nostri eterni nemici. È da tanto tempo che li si accusa di non essere d’accordo in niente. Fanno delle leggi solo per violarle; e, quel che è peggio, è che le violano coscientemente. Si sono inventati cento sotterfugi, cento sofismi per giustificare le loro trasgressioni. Si servono del pensiero solo per autorizzare le loro ingiustizie, e usano le parole solo per mascherare i propri pensieri. Figurati che, nel piccolo paese dove viviamo, è proibito mangiarci due giorni della settimana: sebbene trovino il mezzo per eludere la legge; d’altronde questa legge, che ti sembrerebbe favorevole, è assai barbara; la legge ordina che in quei giorni si mangino gli abitanti delle acque che andranno a cercare come vittime in fondo al mare o al fiume. Divorano delle creature di cui una sola spesso costa più del valore di cento capponi: lo chiamano digiunare, mortificarsi. Infine, non credo sia possibile immaginare una specie più ridicola e insieme più abominevole, più stravagante e più sanguinaria.

LA POLLASTRA.

Eh, mio Dio! Quel che vedo arrivare non è quel brutto sguattero di cucina con il suo grande coltello?

IL CAPPONE.

È fatta, amica mia, la nostra ultima ora è giunta; raccomandiamo la nostra anima a Dio.

LA POLLASTRA.

Che possa dare allo scellerato che mi mangerà una indigestione che lo faccia crepare! Ma i piccoli si vendicano dei potenti con desideri vani, e i potenti se ne fregano.

IL CAPPONE.

Ahi! mi prendono per il collo. Perdoniamo i nostri nemici.

LA POLLASTRA.

Non posso; mi stringe, mi prende. Addio, mio caro cappone.

IL CAPPONE.

Addio, per tutta l’eternità, mia cara pollastra.

traduzione di Marco Vignolo Gargini


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