Voveo

Creato il 18 aprile 2014 da Malvino

In voveoc’èun esplicito offrirmi a quel che dichiaro di vovere (del tutto assente in volo, desidero, cupio, opto, postulo, coi quali esprimo il tratto eminentemente attivo della volontà che aspira, ambisce, brama, preferisce, richiede), sicché col suo participio passato, votum, esprimo una sollecitudine che, per intensità di investimento emotivo, è inferiore solo alla devotio che implicherei in devoveo: col votum non mi limito a dichiarare quel che desidero, ma mi do in pegno perché si realizzi. In altri termini, dichiaro un impegno che connota le motivazioni ideali del bisogno che esprimo, conferendo al mio desiderio il valore di un servizio prestato a un’istanza superiore... Dio, come fila tutto liscio nel cavare il significato di un termine dal suo etimo. Si rimette ordine al mondo, direi.I partiti, per esempio, quelli che chiedono il nostro votum, tanto per intenderci: partitus è participio passato di partiri, partiti sono le partes in cui la società viene a farsi plurale nell’esprimere aspirazioni diverse, ovviamente confliggenti fra di loro, e nel numero dei rispettivi vota si appalesano le loro forze, sicché votare significa… Meglio riporre il dizionario etimologico, il mondo si è fatto refrattario all’ordine.Ammesso e non concesso, infatti, che i partiti esprimano bisogni dettati da istanze superiori, è pressoché impossibile trovare coincidenza tra le aspirazioni che dichiarano e quelle mie: mi è negato il votum, tutt’al più mi resta un cupitum, un optatum (peccato che vellenon abbia participio passato, sarebbe l’optimum). Volendo conservare al votum quel che di etimo residua in esso, quindi, non resterebbe che votare il menopeggio, il minimo di votum, sennò astenersi. Per l’irrisorio peso di un singolo voto, tuttavia, resta una terza via: il disimpegno attivo, il voto che sancisce la rassegnazione al disordine, votare il peggio del peggio.