Oh certo la recensione dalemiana contiene alate parole, anzi un incipit folgorante: “Per quelli della mia generazione, il romanzo L’isola e le rose ha il sapore della nostalgia e ci riporta in un tempo cruciale della nostra vita personale e della nostra storia collettiva”. si sarebbe tentati di pensare che si tratti di qualcosa che ha a che vedere con le battaglie operaie o con il sindacato o magari -dio non voglia – con il Sessantotto. Invece no questa “storia di un’ utopia” riguarda una storia tutta italiana, quella della piattaforma di 400 metri quadri che un tale giorgio Rosa, ingegnere, con un passato di arruolamento nella Repubblica sociale, costruì al largo di Rimini, fuori dalle acque territoriali, per testimoniare di un’idea di libertà che comunque coincideva con il non pagare tasse. Come del resto dice lui stesso: “Non rincorrevo utopie, ma fuggivo dalle tasse e dallo stato che le imponeva”.
Come uso è costume del Paese la trovata che si riprometteva ricchi ritorni commerciali di vario tipo rigorosamente esentasse, fu pubblicizzata con una ridicola dichiarazione di indipendenza, l’adozione dell’esperanto come lingua ufficiale e l’emissione di francobolli col valore di moneta. Durò due anni dal ’67 al ’69 in mezzo a polemiche, strazi politici e leggende. Una storia anche interessante per i risvolti mai del tutto chiariti, ma sicuramente nemmeno Nostradamus avrebbe immaginato che quarant’anni dopo, questo episodio sarebbe stato al centro delle fantasie e delle nostalgie di due leader della sinistra. Molto sedicente perché come acutamente scrive baffino «E l’isola diventa la metafora di una società in piena trasformazione, il simbolo di una generazione nuova che guarda al futuro e al mondo…».
Perfetto: l’isola dell’ex repubblichino insofferente dello Stato, che disprezza la Resistenza, angosciato dalla possibilità della distribuzione della ricchezza e dall’idea di eguaglianza, anticomunista viscerale, disposto alla farsa dello stato-appartamento, diventa metafora del nostro futuro. Che fine miserrima, assieme a quella dei tanti commentatori illustri che vendono mediocrità e servo sudore come fossero pepite . Ma certo una bella isola delle rose al largo, magari di Macerata, ci vorrebbe per raccogliere questa genia di scrittori e recensori: parlino esperanto, giochino con i francobolli e non osino mai più sbarcare a terra: li del resto possono eleggersi onorevoli a vita, senza che qualcuno sia tentato dallo uno sputo nell’occhio come quelli di Totò.