Mi ricordo di quando Walter Vetere mi spiegava che stava lavorando sulla temporalità e/o sulla percettibilità della parola ed io, cercando nei suoi testi, scavavo, senza, tuttavia, riconoscerne la presenza. C’è voluto del tempo e tante letture per entrare in questo suo mondo poetico così distante, così “avanti” dove le classiche strutture sintattiche venivano smantellate, il significato perdeva la sua primarietà ed il sensoriale assumeva forma, suono e direzione. Il suo linguaggio, dove l’imprevedibilità diventa corrente, spazia dal semplicissimo al forbito e mai “aristocratico”, attraversando corridoi epocali e di grande interesse; non è raro, infatti, trovare lemmi dal sapore retrò (…che s’ammatura ai venti.) o, addirittura, “fuori corso”(… E tutto si parea dolce, tornando dall’inverno) in un contesto che, pur non prevedendoli, li integra in maniera eccellente. Pregevoli, a mio avviso, anche le immissioni di forme dialettali contratte, che regalano ai versi suoni differenti ma in elegante e sorprendente armonia. Oggi considero Walter Vetere non tanto un poeta quanto uno studioso della sua poetica, uno sperimentatore di poesia, uno personaggio che vive di e con la poesia e della parola fa divinità. Dice Daniela Casarini: “Nella sua poesia c’è uno svolgersi temporale che trasfigura il singolo fatto universalizzandolo nella parola, con le parole. L’atto formale già-noto della poesia universale si manifesta prediligendo l’utilizzo delle parole “umili”. Così che nel quadro strutturale della sua scrittura, risulta una forma sacrale del linguaggio che a tratti svolta al classico, a tratti assume l’impianto di un testo sacro o filosofico. Quasi la reminiscenza della storia che ci portiamo dentro da millenni a percepire gli ambienti, a sfiorare appena i particolari della quotidianità contemporanea e il suo procedere nell’era della cultura digitale e mediatica. Egli non si definisce un passista con la parola, quanto uno scattista potendo solo nello spazio ridotto, trovare un certo equilibrio dell’intero tessuto, compreso il linguaggio. Linguaggio che per lui, è sempre dominante in quanto mezzo di annodamento ed evoluzione storica in sé, sia quando la parola viene evocata, sia solo strumentalizzata per una pura comunicazione.” Ed è nell’umiltà della sua parola/poesia dove risiede la potenza della sua espressione, la forza di penetrazione del percettivo e del consenso. Contrario alla globalizzazione della parola, il Vetere richiama sempre un singolare universale attraverso il sostrato poetico su cui poggia l’impianto semantico e, rimanendo attento più alle significanze che ai significati, sostiene l’intera struttura con piccoli puntelli capaci, però, di reggere la rappresentazione che vuole mettere in scena. L’autore stesso spiega: “Il ‘noi’ sta a rappresentare la perdita dell’individualità a favore di un io massificato, l’indicazione che è sempre e solo rappresentazione contingente di fenomeni che richiamano all’interno di noi stessi sensazioni già provate ed ivi già codificate.” e poi “E’ il divenire, che stiamo perdendo, lo stupore di noi stessi per una sintesi mediatica di una medietà del nostro apparire.” Questa medietà codificata, diventa spersonalizzazione per il poeta che spesso, decontestualizzando, rimette in gioco sequenze di immagini altrimenti perse, perché poste non nella parola/poesia, ma nel pensiero/poesia che abbraccia tutto il momento poetico comprese le estreme periferie dei sensi.
A Walter Vetere la mia ammirazione.
Sebastiano
Avrei potuto
quella pecora al recinto corre non la vedo
non ho sentito
avrei potuto
d’un sussurro quella voce
più d’un sogno ho sognato
questa notteagreste è la storia che fosse
quando la luna dal freddo ti togliecampestre d’un gioco
debordante voce
vetustà d’un credere
a riva implosa viene l’alba
e d’un fanciullo in cerchio espresso l’infinito
d’un silenzio senza moka che di lontano
ancora sgorga
e non è pace addì chi di è
quasi del nulla un sorriso
ubriacatura tecnologica del giorno
incolla dicesti più solitudini nel dunque
Che s’ammatura ai venti
Questo tuo prestare i fianchi nell’alto,
gli anatemi, il dì futuro
che tanto parve, a me, così ben ordinato,
di sera, i lampioni, l’apparirne tu incantata
di luna, il profferir lontano dei semafori
che, a dir poco, più non contenemmo
le voglie, i rudimenti che, altri, avrebbero
chiamato amori, noi solo incanti
da spicciolar, così, come petali di rosa
che s’ammatura ai venti.
La via del ritorno
Che non ci sia più il candore d’un tempo,
alla luna.
Che anche le lucciole cantino stasera,
nella loro danza degli attimi, i ricordi.
Il sia che tutto fu tra petali d’un buio e tu lì
a rimpiazzare l’ornato, con ancora tra le mani
il freddo delle foglie.
E tutto si parea dolce, tornando dall’inverno,
al caldo di una rosa che sapeva, per più,
di primavera.
Come oleandri i fiori s’appellavano
tra le siepi, in cui quegli anfratti nostri,
a terra, nei tramonti,
che le parole giungevano così scampoli
ai meno di un silenzio
che ozioso, ora, anch’esso s’allenava
sulla via del ritorno.
Errore. Nessuna voce
di sommario trovata.
Vuotità
E più e più
già: la rondine in cielo
avemmo vent’anni, allora-
avrei da dire alcune cose, ora,
avrei da dirle da seduto
accanto ad una tavola imbandita
con bicchieri in cristallo,
inizierei da lì
porgendo il bicchiere in alto
verso il lampadario a tre luci,
assommando così vuoto al vuoto,
necessità e desideri,
ed in fine: è giunto il tempo, si
dirà
il tempo di alzarci anche oggi,
mentre il televisore continuerà
a restare acceso.
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