Wasukuma e Wagogo(Tanzania) / La superstizione che frena lo sviluppo / Altro difficile nodo da sciogliere

Creato il 16 marzo 2012 da Marianna06


Accade in Tanzania. E lo racconta la giornalista Romina Remigio nel suo “diario di bordo” stilato nel corso di un ultimo viaggio in Africa australe presso alcune” missioni “dei padri della Consolata, sul numero  di marzo della rivista “Missioni Consolata”.

Il Tanzania, che la Remigio conosce bene da anni,e al quale ha dedicato un libro, che è anche un valido reportage fotografico, è un Paese molto vario e, per certi aspetti, ricco di vistosi contrasti.

Si va dalla moderna e caotica  Dar es Salaam  alla modernissima quanto impersonale Dodoma, ultima nata, fino ad arrivare ad Arusha, nota invece e sopratutto per essere sede dei processi del Tipr.

Ma ci sono in questa vasta nazione, che ha festeggiato proprio  quest’anno i suoi  primi cinquant’anni d’indipendenza dal potere coloniale,  tutta una serie di villaggi e zone rurali  povere, disagiate e prive di ogni servizio.

Non c’è acqua, non c’è luce elettrica, non c’è telefono.

 Nulla che significa proprio nulla.

In questi luoghi mancano ovviamente sia le scuole dell’infanzia(ma i bambini sono sempre tantissimi) che le primarie e, come ben si sa, l’isolamento e l’ignoranza generano inevitabilmente nelle genti del luogo superstizioni.

La Remigio ci narra dei Wasukuma e dei Wagogo, due etnìe, che non amano affatto il progresso.

Anzi desiderano conservare il loro status immutabile,perché temono che eventuali miglioramenti delle proprie condizioni di vita potrebbero scatenare l’invidia dei vicini, amici, parenti, familiari e gettare su di loro quello che noi chiamiamo il”malocchio”.

E che temono terribilmente.

Infatti, per quanto gli stessi missionari s’impegnino in questi contesti difficili a cambiare le cose, la resistenza dei locali permane ed è davvero durissima da abbattere.

E, a questo proposito,  racconta tramite padre Saverio Diaz, un colombiano finito in Tanzania ad annunciare la “buona” novella ma non solo, di un ragazzo che, ad Heka, seguito appunto dai padri missionari per realizzare un minimo d’istruzione per sé ed imparare poi, in una scuola di falegnameria, il mestiere di falegname, dopo qualche anno di questa vita, si ammala e quasi inspiegabilmente  muore.

Poiché il ragazzo aveva messo da parte dei risparmi, il missionario che lo aveva seguito, consiglia alla famiglia di utilizzare quel denaro per costruirsi  una vera casa in cemento.

A questa sollecitazione i familiari rispondono subito negativamente. E la cosa va avanti per parecchi mesi. Forse qualche anno.

Un giorno però qualcosa si smuove e il missionario pare che abbia vinto  la sua sfida.

La casa viene costruita ma ,inizialmente,nessuno va ad abitarla.

Poi, gradualmente, ci si va un po’ alla volta di giorno.

 E sono specie le donne della famiglia a farlo. Forse le più coraggiose e intraprendenti.

 Di notte, tuttavia, si ritorna tutti a dormire in capanna.

Incredibile ma vero.

A domanda del “perché”, la risposta è: paura di eventuali altri sciagure.

E non si aggiunge altro.

Conclusione?

Nessun giudizio ma , certamente, non si può non dire : “paese che vai usanza che trovi”.

E sarà dura cambiare le “cose”.

Anche se missionari e laici, quelli impegnati nello sviluppo,  sono in genere persone testarde e alla fine riescono ad avere la meglio anche su situazioni impossibili.

   A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

   In basso la foto della chiesa parrocchiale di Heka(scattata da p.Remo Villa)


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