Nei giorni in cui silenzio e solitudine permettono un più diretto dialogo con ciò che abbiamo dentro, si scopre, a volte, che l’inconoscibile e indistinguibile mare che si agita all’orizzonte dello sguardo, che sembra divorarci, con onde di pura paura, non è nient’altro che l’eco dei pensieri, che allontanandosi concentrici dal centro dell’io, raccolgono sensazioni,
detriti,
ansie,
desideri,
crescendo in dimensione, affondando al di sotto della superficie della coscienza, mutando di forma, divenendo qualcosa che non si riconosce più come parte di se.
La paura, in fondo, è solo un riflesso in uno specchio, che ci rappresenta, ma che non vogliamo accettare, maschera di un’inadeguatezza che spinge a
crederci differenti,
vivere differente,
sognare differente,
seguendo un concetto di verità che rimane astratto e ambiguo come la figura di un fantasma nella nebbia novembrina.
Nei giorni in cui silenzio e solitudine permettono un più diretto dialogo con ciò che abbiamo dentro, si scopre, a volte, che questa paura, questo mare, sono qualcosa in cui immergersi,
inabissarsi,
annullarsi,
tra le dissonanze create dall’agitarsi delle acque, in questa ricerca in cui è possibile perdersi, annegare, terminare la propria esistenza con la sparizione nel nulla, verso un fondale sconosciuto, sublimata rappresentazione della pelle dello spirito, il limitare di un altro mondo, di altri spazi, in cui ritrovare il senso di un se stesso passato, e il possibile contorno di un se stesso futuro.