Mea culpa.A nome mio e delle altre teste del blog: è dovuto. Sappiamo di non parlare abbastanza né di Hiv/Aids né della necessità (e dei metodi) di prevenzione, soprattutto (ma non solo) per quanto riguarda il sesso occasionale. Non siamo le uniche ad avere questa pecca, ma questa non è una scusa, così come non lo è la famigerata bassa incidenza di contagio tramite il sesso "lesbico". Non ci sono buoni motivi per rischiare. Niente, e sottolineo niente, può valere la pena del rischio, la sicurezza del pericolo.Ce lo ha ricordato ieri, con straziante intensità, il documentario We were here di David Weissman, presentato precedentemente alla Berlinale e al Sundace Film Festival e assolutamente meritevole, per quanto mi riguarda, del premio per il miglior documentario del Festival Mix 2011, anche se non gli è stato attribuito. Il documentario racconta gli anni della prima (e massima) diffusione del virus dell'Hiv nella San Francisco di Castro e delle Cockette, della confusione, della paura, della divisione e soprattutto della reazione della comunità queer, che si è trovata isolata in una lotta che andava ben oltre l'accettazione e i diritti civili. Nella metà degli anni ottanta e nei pieni anni novanta risultare positivo all'Hiv voleva dire soprattutto essere soli: allontanati da una società che aveva paura, spesso senza una famiglia che già si era allontanata molto tempo prima, senza speranza in una guarigione e senza nessun tipo di comprensione. In questa situazione la comunità di Castro si è stretta a se stessa e ha dimostrato tutta l'umanità e l'altruismo di cui l'uomo è capace, creando centri di assistenza, metodi di raccolta fondi, pressioni politiche per la ricerca e la diffusione delle medicine. Quello che hanno fatto quelle persone, per la stragrande maggioranza oggi decedute, è incredibile, quello che hanno visto impensabile. Il documentario non può darne che un'idea, estremamente dolorosa ed estremamente importante, per la quale tutti noi in sala abbiamo pianto.
Mea culpa.A nome mio e delle altre teste del blog: è dovuto. Sappiamo di non parlare abbastanza né di Hiv/Aids né della necessità (e dei metodi) di prevenzione, soprattutto (ma non solo) per quanto riguarda il sesso occasionale. Non siamo le uniche ad avere questa pecca, ma questa non è una scusa, così come non lo è la famigerata bassa incidenza di contagio tramite il sesso "lesbico". Non ci sono buoni motivi per rischiare. Niente, e sottolineo niente, può valere la pena del rischio, la sicurezza del pericolo.Ce lo ha ricordato ieri, con straziante intensità, il documentario We were here di David Weissman, presentato precedentemente alla Berlinale e al Sundace Film Festival e assolutamente meritevole, per quanto mi riguarda, del premio per il miglior documentario del Festival Mix 2011, anche se non gli è stato attribuito. Il documentario racconta gli anni della prima (e massima) diffusione del virus dell'Hiv nella San Francisco di Castro e delle Cockette, della confusione, della paura, della divisione e soprattutto della reazione della comunità queer, che si è trovata isolata in una lotta che andava ben oltre l'accettazione e i diritti civili. Nella metà degli anni ottanta e nei pieni anni novanta risultare positivo all'Hiv voleva dire soprattutto essere soli: allontanati da una società che aveva paura, spesso senza una famiglia che già si era allontanata molto tempo prima, senza speranza in una guarigione e senza nessun tipo di comprensione. In questa situazione la comunità di Castro si è stretta a se stessa e ha dimostrato tutta l'umanità e l'altruismo di cui l'uomo è capace, creando centri di assistenza, metodi di raccolta fondi, pressioni politiche per la ricerca e la diffusione delle medicine. Quello che hanno fatto quelle persone, per la stragrande maggioranza oggi decedute, è incredibile, quello che hanno visto impensabile. Il documentario non può darne che un'idea, estremamente dolorosa ed estremamente importante, per la quale tutti noi in sala abbiamo pianto.
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