Weekend di Andrew Haigh. L’approfondimento

Creato il 15 marzo 2016 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

A cinque anni dalla sua uscita, arriva nelle sale italiane il secondo prezioso lungometraggio di Andrew Haigh, grazie alla Teodora Film, che ha scelto felicemente di dargli questa possibilità, cavalcando la scia del successo del più recente lavoro del regista, 45 anni, da essa stessa distribuito pochi mesi fa.

Haigh, 43enne inglese, dopo una gavetta di tutto rispetto, come assistente di Ridley Scott, e un primo quasi sconosciuto documentario in cui affronta il tema delicatissimo della prostituzione maschile, dal titolo Greek Pete, dimostra da subito di essere detentore di un talento e di una sensibilità fuori dal comune, mettendo al centro dalla sua scena, con delicatezza estrema, la complessità e le contraddizioni del profondo sentire che nasce e intercorre tra due persone che si incontrano e si innamorano.
Egli ha la capacità straordinaria di arrivare dove non arriva, con tutti i suoi enormi e purtroppo ancora invalicabili limiti, la società attuale, scardinando le basi che sostengono il pregiudizio e la paura nei confronti di una realtà, quella omosessuale, che ancora abbondantemente viene percepita come altra, invece che parte integrante di un’unica dimensione relazionale, sessuale e affettiva. E lo fa, comunicando un’affettività reciproca in modo talmente vero e potente, da far sì che sia totalmente ininfluente, che quasi ci si possa dimenticare, che si stia guardando due uomini.

Si tratta prima di tutto di due persone, è quello che è in assoluto primo piano, che si percepisce prima e fortemente; poi, solo secondariamente, è un aspetto che caratterizza una dimensione primaria e centrale, il fatto che siano dello stesso sesso. E non perché sia giusto dirlo, perché si debba difendere una causa o una minoranza, per affermare dei diritti, ma perché è esattamente quello che si sente guardandoli.

Assistiamo a un primo incontro, al mangiare insieme, al raccontarsi, alla voglia di rivedersi, alla paura di esporsi e di perdersi, al desiderio puro, fisico potentissimo che si sprigiona anche soltanto stando vicini, guardandosi, che è evocato dalle parole, dal suono della voce dell’altro che ti parla di sé o di te, alla forza di una passione che nasce, cresce e diventa urgente, al crearsi di quella dimensione sicura in cui vi è calore, conforto, in cui ci si sente bene, che non vorresti essere da nessun’altra parte, che ti sembra sia l’unico posto dove saresti mai dovuto essere.

Tutto avviene con una naturalezza tale ed è ripreso in modo talmente efficace, che viene da chiedersi se non sia reale.
Haigh si affida a 2 attori eccezionali, nonostante agli esordi, Tom Cullen e Chriss New, che fa interagire attraverso movimenti e dialoghi sorprendentemente autentici, per mettere in scena delle dinamiche totalmente condivisibili da chiunque, uomo o donna, omo o etero che sia.

Due persone che si trovano quasi per caso, e che da quel momento in poi si espongono progressivamente in un disvelarsi reciproco, rispondendo a una forza magnetica da cui vengono travolti, a un’urgenza che supera qualsiasi razionalità, paura, difesa, che abbatte ogni sovrastruttura, scoprendo a poco a poco le loro diversità e amandole, vivendo la sorpresa di cogliere sé stessi nell’altro.
La manifestazione esplicita della sessualità, lungi dall’essere un’ostentazione o dal caricare eccessivamente la scena, diventa viatico espressivo di una reciprocità profondissima che si esprime nell’attrarsi, nell’avvicinarsi, nel toccarsi, fino al fondersi di due corpi.

“Sai com’è quando vai a letto per la prima volta con uno che non conosci.

È come se tu diventassi una tela vuota. E hai l’opportunità di proiettare su quella tela, ciò che vuoi essere. E questo è interessante, perché lo fanno tutti.
Beh, succede che, me tre proietti chi vuoi essere, si apre un divario tra chi vuoi essere e chi sei veramente, e quel divario ti mostra cosa ti blocca dal diventare quello che vuoi.”

Tutto questo è qualcosa in cui chiunque può identificarsi, qualcosa di omnicomprensivo, che esce da qualsiasi definizione, che annulla qualsiasi differenza, che ci riguarda tutti talmente tanto da spazzar via qualunque pregiudizio e da calmare le paure dalle quali deriva.
Uno degli ostacoli principali, che induce purtroppo ancora tantissime persone a vivere l’omosessualità con imbarazzo, disagio, fastidio, quando non addirittura con disprezzo, è il fatto di non averla mai vissuta come parte del proprio mondo, della propria realtà, di non potercisi identificare, di non poterla far propria, relegandola così a qualcosa di lontano da sé, sconosciuto, e magari in quanto tale pericoloso.

High compie la rara e inestimabile operazione di superare questi limiti, usando un linguaggio universale, identificando e rappresentando in modo incredibilmente autentico, tutti gli elementi comuni di una relazione, di un amore, di una coppia, comuni a tutti quanti, indipendentemente dall’orientamento sessuale, consentendo così quell’identificazione tanto difficoltosa, coprendo distanze spesso incolmabili, rendendoci tutti portatori degli stessi sentimenti, dello stesso desiderio, delle stesse paure.

E paradossalmente, nel contempo, riesce a trasmettere con altrettanta efficacia, la frustrazione e il disagio derivante da una condizione in cui ci si sente non riconosciuti, in cui ci si vergogna del proprio essere, non sempre si riesce a non nasconderlo, e ci si porta dietro il fardello del non sentirsi parte del mondo.
Bellissimo il dialogo in cui uno dei due ragazzi cerca di spiegare come si sente a riguardo.

“- Sai, quando sono a casa, sto bene.
– Bene?
– Sì, completamente.
Non m’importa, non ci penso nemmeno, non mi imbarazza, non me ne vergogno, non voglio essere etero. Non ora, perlomeno.
Sono felice. Sono felice di essere gay.
– Ma?
– Quando esco, sai, quando vado dagli amici o al lavoro, è come se… è difficile da spiegare, mi sento come se avessi un’indigestione. Sì, è proprio come un’indigestione.
E mi fa arrabbiare, sai, che mi faccia stare così, perchè… perché è patetico, cazzo.”

I due ragazzi parlano più volte di come hanno vissuto lo svelarsi alle proprie famiglie, ed è molto tenero, tristissimo, percepire quanto sia importante sentirsi visti, amati a prescindere, in tutto il proprio essere, nella propria completezza, e non solo in parte.
Meravigliosa la scena in cui uno dei due dona all’altro la sensazione ideale di poterlo comunicare a un padre che non c’è.
Ed è ancora amaro, un finale, in cui, la massima espressione dei propri sentimenti, la massima esposizione verso l’altro, quel momento in cui, ci si denuda, si da il tutto e per tutto, non ci si protegge più, che dovrebbe essere difeso, valorizzato, che poi verrà ricordato, viene disturbato ancora una volta da quel senso di indigestione che comporta l’essere visti e disprezzati.

Anime che mantengono la loro singolarità, la cui individualità viene esaltata proprio dalla condivisione, che ne mette in risalto le rispettive peculiarità, le espressioni, gli odori, i respiri.

Che fa da contraltare prezioso e potente a una società omologante, che respinge l’espressione di sé, che ne ha paura, quanto più spontanea e intensa è la sua manifestazione, che vuole tutti uniformati a un sentire che non sia mai troppo esplicito, che non possa disturbare mai troppo l’apatica quiete comune; aspetto di cui l’emarginazione dell’omosessualità è soltanto uno dei tanti esempi, ma che spesso vale per qualsiasi slancio vitale proprio e autentico, che si discosti dalla realtà già conosciuta, che osi colorarla di tinte nuove, sia esso un’opinione, un’idea, una cultura diversa, l’espressione di un’emozione forte.
Dove la crescita è frenata, l’evoluzione faticosa e temuta invece di essere riconosciuta come un valore.

“Quando conosci da molto tempo i tuoi amici, ad un certo punto tutto si salda. Non puoi essere nessun’altra versione di te, perché loro si aspettano quella vecchia.
Sto cercando di ridisegnarmi, ma tutti continuano a nascondermi la matita.”

A dimostrare ancora l’eterogeneità e la complessità dei temi trattati, facendo un ragionamento più ampio ed estendendo la visuale anche a 45 anni, appare evidente come Haigh proponga una concezione dell’amore incondizionata, scevra da qualsiasi limite o paletto, libero di esistere e muoversi, indipendentemente dal genere e dall’orientamento sessuale di chi lo vive, ma anche di vivere al di là di dimensioni più astratte, quali tempo e spazio.

Così, se in 45 anni vediamo un amore che si mantiene e si evolve per quasi mezzo secolo, senza escludere l’esistenza parallela di un sentimento profondo che resiste a distanza, tempo e morte, in Weekend vediamo come sia sufficiente un arco di tempo di poche ore, perché due anime affini si incontrino, e arrivino a sentirsi, toccarsi, compenetrarsi.

Un tempo che si dilata e si contrae quindi, adattandosi all’energia che prende forma in un sentimento reciproco.

Infine, è degno di nota, come Haigh, non abbia remore nell’ essere politicamente scorretto, associando tale naturalezza e profondità di vissuti ed emozioni, all’utilizzo, anche piuttosto frequente, di sostanze stupefacenti, offrendo un punto di vista neutro su una realtà assolutamente non insolita, e dando modo di osservare come in diverse occasioni, tanta dell’intimità che i due ragazzi riescono a trasmettersi, sia agevolata dalla perdita dei freni inibitori data dalle sostanze che hanno in corpo.

Ed è apprezzabile, proprio perché il regista non ne fa una questione morale, non la giudica, la osserva perché accade. E noi la osserviamo con lui.

Roberta Girau



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