Di ritorno da una gita alle Cinque Terre un’amica olandese della mia ragazza mi ha chiesto quale pensavo fosse lo specifico, o per meglio dire il cuore, della scrittura. Pochi minuti prima aveva rivolto la medesima domanda alla mia ragazza –con riferimento alla fotografia però– e lei le aveva risposto con una certa sicurezza “la luce”.
La mia ragazza è appassionata di fotografia ed è fotografa dilettante. Come molti nella sua situazione, ha una relazione conflittuale con ciò ama. Il suo è un vero e proprio rapporto d’attrazione e fuga. Nondimeno pare conoscere la fotografia meglio di quanto io alle volta presuma d’intendermi di letteratura.
La domanda, per essere esatti, era stata la seguente:
“What do you think is the core of photography?”
“Light” aveva replicato. Naturalmente si può non essere d’accordo. Ma la risposta mi ha soddisfatto. Negli ultimi anni –da quando cioè stiamo insieme e sono stato a mia volta risucchiato nel mondo della fotografia– ho imparato a misurare le mie giornate in rapporto alla luce.
Era una cosa alla quale prima non facevo troppo caso. Una giornata poteva essere bella o brutta, calda o fredda. Essendo un surfista potevo misurare le mattinate o i pomeriggi in termini di basse o alte pressioni, direzione dei venti, intensità del moto ondoso. Alla luce, per essere onesti, non avevo mai fatto troppo caso.
Non mi era mai capitato di notare quanto intrinsecamente significante potesse essere la luce in certi momenti della giornata. O in certi luoghi. O in determinate situazioni.
Mi era certo capitato di aprire la finestra o di guidare in autostrada e magari vedere le cose più nitide, o notare particolari e dettagli che non avevo considerato prima, o addirittura avvertire un senso (di pace, d’inquietudine, di melanconia, di felicità…) non avvertito prima. Ma a queste sensazioni non si era mai accompagnato il pensiero che: “oggi la luce è fantastica. Oggi la luce fa vedere le cose.”
Da alcuni anni a questa parte, ecco, notare la luce è divenuto uno degli spunti naturali del mio esserci nelle cose. Mi capita sempre più spesso, ad esempio, di uscire a passeggiare, o affacciarmi al balcone, o risalire sulle colline, o andare in spiaggia nella bellezza di certi pomeriggi (o mattinate) di luce. In aiuto mi vengono alcune albe e tramonti esageratamente drammatici, dalla mie parti, durante i quali come direbbe un mio amico poeta “è facile leggere il messaggio che la vita non smette di consegnare ogni istante all’uomo.”
Io non sono un poeta. Non sempre credo nei messaggi. E considero difficile individuare un senso nel nonsense nel quale mi trovo ogni giorno a respirare. Ma da quando ho cominciato a guardare il mondo con gli occhi di chi ama anche fotografarlo, ho ricominciato anch’io a vederlo. E, alle volte, a essere addirittura in grado di scriverne.
Come una pellicola sono divenuto giorno dopo giorno più sensibile allo spettacolo che mi si svolge di fronte.
Nondimeno non faccio foto. Non giro con la macchina fotografica in mano. Tutto ciò che ho sono i miei occhi miopi, una penna, e il moleskine in tasca. Scrivo, ecco. Il mio esserci nelle cose ha a che vedere col fatto che ne scrivo, o meglio, che provo a raccontarle.
Ma a quella domanda continuo a non saper rispondere.
“What is the core of writing?” mi ha chiesto con imbarazzante naturalezza l’amica della mia compagna. E io mi sono messo a parlare d’altro.
La mia compagna e la sua amica si sono scambiate uno sguardo di femminile complicità, e sorridendo hanno detto “he wants to keep his secret.” Come se, davvero, il sottoscritto avesse una qualche formula alchemica da nascondere al mondo dei non-iniziati.
La verità è che da quel giorno (era un tardo pomeriggio di fine luglio) la domanda ha continuato ad angustiarmi. Ecco, non proprio angustiarmi, angustiarmi non è la parola giusta, diciamo a non smettere di interrogarmi.
Ogni epoca, ogni movimento, ogni gruppo o singolo scrittore o supposto tale ha in maniere e tempi differenti dato una qualche risposta. Tuttavia continuo a restare inchiodato all’impossibilità di trovarne una capace di rispondere definitivamente.
Cosa fa di un libro (o meglio di una successione di parole scritte) un’opera letteraria?
La domanda “what is the core of writing”, in fin dei conti, a questo si riferiva, credo, –non alla lista della spesa– ma all’instabile evidenza di una cosa che poi diviene Letteratura.
“What is the core of Literature?”
Quasi dieci anni fa, tra il prolificare di allegati e interventi che accompagnava l’arrivo del 2000, mi ero messo a seguire una serie di articoli legati ai cosiddetti “capolavori” della letteratura mondiale, capolavori che in realtà sarebbero stati “ciofeche madornali e illeggibili”. Il punto a capo di duemila anni di evoluzione si rivelava scivoloso ed evanescente come quel fiume di dati destinati ad autocancellarsi allo scadere della mezzanotte.
Scripta manent, mi era stato insegnato a scuola. Ma di quali scripta si potesse veramente parlare pareva ancora tutt’altro che chiaro.
Per ogni opera letteraria che avesse segnato un’epoca, ecco allora comparire due punti di vista completamente differenti, entrambi espressi da stimati professionisti della materia per carità, che senza troppi complimenti finivano per non concordare neppure sul più basilare degli elementi (considerando l’argomento): “È questa un’opera letteraria?” E se sì, “è quest’opera letteraria di valore?”
Ovviamente non sto scrivendo, qui, per dare una risposta.
Sono qui adesso, davanti al computer, per provare a trovarne una credibile la prossima volta che l’amica della mia compagna (o chiunque altro) mi porrà la domanda.
Letteratura è un mare vasto che non sono folle abbastanza da poter dire di conoscere, e che spesso continuo ad avere paura a cercare di attraversare.
Ci sono le parole, certo, (ma dire che lo specifico della scrittura è la parola mi fa pensare che quello della fotografia sia la camera oscura…) e c’è la sintassi e la struttura nella quale andare a inserirle. C’è la capacità di mettere in comunione singolare e universale, il ché a ben vedere, è ciò che rende una qualunque arte ciò che è, e fa parte della fotografia come della musica, delle arti plastiche e visive come della letteratura. C’è lo stile, come no, c’è il talento nel coniugare essenzialità e ricercatezza, cultura linguistica e aderenza al primigenio. E ovviamente –e qui mi riferisco alla rotta che meglio conosco, ovvero alla narrativa– c’è la storia che vogliamo andare a raccontare. Spesso si dice che ciò che è centrale nel racconto di una storia, al di là della storia in sé, sia l’equilibrio delle parti e del tutto (altro principio di vecchia data) come per l’architetto che progetti una casa o lo chef che cucini un piatto. Tutto vero, tutto chiaro. Ingredienti, visione del dettaglio e dell’insieme, controllo del processo e dei tempi di messa in opera e senso del ritmo. Importantissimo, quello. Il ritmo.
Eppure continuo a muovermi a troppa distanza dalla chiarezza di quel “light.” “What is the core of writing?”
Mia nonna sapeva cucinare piatti sopraffini con l’ausilio di pochissimi, essenziali ingredienti, mia madre non riesce a realizzarne uno decente facendo ricorso a tutto ciò che un supermercato può offrirle.
Tecnica. Spirito d’osservazione. Sensibilità. Capacità di isolarsi dal mondo e insieme d’immergervisi. E poi talento nell’operare scelte, nell’immaginare e nel visualizzare, nel ricontestualizzare. Senza dimenticare lo stretto rapporto tra aspetti formali e sostanziali, anche quando non vanno d’accordo. Gestione del tempo. Che poi a ben guardare ha a che vedere con la nostra capacità di percepirlo. Si potrebbe andare avanti per giorni, ma si finirebbe per non tenere conto di un altro elemento fondamentale –uno dei più importanti perlomeno a mio parere– ovvero la capacità di sintesi. E quindi qui mi fermo.
Frank Herbert fa dire in “Dune”: “you must think like a patch of sand. Hide beneath your cloak and become a little dune in your very essence.” Ecco, lo scendere nell’essenza, un altro degli elementi centrali dello scrivere. Nabokov insisteva sul ruolo degli scrittori come “incantatori”. Fitzgerald amava ripetere che le belle storie si raccontano da sole. Oscar Wilde, invece, che quello che davvero conta è la gestione del superfluo.
Questo per scrivere un romanzo. Ma un racconto vive di un respiro differente. O no? “Non proprio” direbbe forse Hemingway. “Respiro sì, ma l’essenza, quella è la medesima.”
I romanzi sono innanzitutto un canto dice Foster. Si parte da una storia e si arriva a un tema dice Stephen King. Prima occorre avere un tema e poi si sviluppa una storia dice Paul Schrader (che però scriveva film). Per Henry James l’unica cosa che veramente conta è il personaggio. “Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità” gli fa eco Calvino.
“What is the core of writing?”
Mi torna in mente Conrad. “L’ombra” risponderebbe Marlow. Il vero significato di un racconto non sta al suo interno, come il gheriglio dentro una noce, ma al suo esterno, come in una foschia.
Se la fotografia ha a che vedere con ciò che si vede (o che si può vedere) la scrittura vive di ciò che ci sfugge, e che non si può mai veramente raggiungere. È forse il rapporto tra Reale e Realtà di Lacan: il reale non è dicibile. Il nucleo vero di un libro sfugge alle intenzioni degli stessi che l’hanno scritto.
What is the core of? È una domanda mal posta, forse, alla quale sto continuando a cercare di rispondere nella maniera sbagliata. Eppure è anche una domanda semplice, fatta nel tempo di una chiacchierata nello scompartimento di un treno, e a cui dovrebbe e in effetti potrebbe essere facile rispondere, quando riferita ad altro dall’atto stesso di questo scriverne.
“He wants to keep his secret” hanno detto la mia compagna e la sua amica.
E io ho pensato: che segreto è un segreto di cui non si è neppure a conoscenza?
Lascio la domanda ad aleggiare nell’aria, allora, come la foschia di Marlow, in attesa che altri sonni vengano angustiati e il mio peso sia condiviso.
E mi rifugio in una frase che mi ha sempre aiutato, e che non ricordo dove ho letto, ma che continua a rappresentare quanto di più vicino a una risposta al momento io riesca a trovare.
Dice: “the way to tell a story in a book is to understand that you’re speaking to one person at a time, in the dark.”
E in questa oscurità -in quest’ombra direbbe Conrad- ritorno a raccontare.