"When you're strange"/"id.
di: T.DiCillo
con: J.Morrison, R.Manzarek, J.Densmore, R.Krieger.
- USA 2009 -
Documentario - 85 min
Ad oltre quattro decenni di distanza, a "superficie ampiamente ricompattata", direbbe qualcuno - come del resto aveva già presagito Cocteau al momento di notare che "gli eroi vivono di disobbedienza. Ma se si e' troppo liberi, non c'è più possibilità di disobbedienza. Ora, siccome attualmente la gioventù e'
libera di fare quello che vuole, non ha la possibilità di rivoltarsi, ed e' nella rivolta e nella disobbedienza che si trova la forza di creare" - tornare con la mente e lo sguardo a quel particolare interludio situato a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, e' un po' come indulgere sul moto di un'onda che guadagnando la riva s'ingrossa per poi frangersi in una miriade di flussi spumosi fino all'istante in cui le sabbie (della conservazione, o dell'auto-conservazione, chissà), sempre pazienti perché immote, si limitano con serafica indifferenza ad inghiottirla, disperdendo ogni sua traccia. L'appena detta metafora - per quanto elementare - risulta abbastanza esplicativa se la si applica al tumultuoso fermento che attraverso' in quegli (strani) giorni il mondo giovanile e alimento' - in specie negli Stati Uniti, comunità dinamica e "giovane" per definizione - in abbinamento con tutta una serie quasi mai indolore di altre richieste di revisione delle gerarchie e relazioni all'interno del "patto sociale" (due per tutte: la stagione dei "diritti civili" e il serrato antagonismo manifestato al sempre crescente coinvolgimento nel conflitto vietnamita), rivoli di una forse irripetibile frenesia inventiva (ricordiamo, solo per restare nell'ambito musicale, la parabola del genio hendrixiano e la tormentata dissipazione della Joplin), scomposta a volte e disorganica, anche perché come già avvertita, oltreché riguardo la propria unicità (ma questo e' un dato accessorio ed estrinseco comune a tutti i gesti genericamente "di rottura"), di star avanzando su un crinale particolarmente infido (in più che malfermo equilibrio tra due epoche che si sarebbero rivelate di li' a breve spartiacque e diametralmente opposte e che per taluni aspetti richiamano alla coscienza la stessa lunga e travagliata transizione che stiamo vivendo oggi) alla cedevolezza del quale non sarebbe stata in grado di sottrarsi.
Proprio questa sotterranea - quanto, di sicuro, non totalmente conscia - lotta contro il tempo, questa urgenza di dire ciò che per tanto, troppo, era stato taciuto o sopito o frainteso, e' il primo e uno dei più interessanti elementi (tale da influenzarne la struttura e il passo) che emerge dal documento per immagini redatto con amore ma non con condiscendenza da Tom DiCillo e dedicato a quella bizzarra meteora tra rock, psichedelica e blues che sono stati i "Doors" (appellativo/simbolo tratto dal celeberrimo verso di Blake, ripreso poi da Huxley, per cui "if the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it truly is, infinite"/"se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all'uomo per ciò che realmente è, infinita"); in particolare alla figura iconoclasta e innocente, romantica non secondariamente perché ostaggio di tante umane debolezze, grimaldello
dell'inconscio di massa e vittima/carnefice di un sistema che da aspettative emotive enormi quali quelle originatesi in seno ad una situazione di rivolgimenti politici, sociali e culturali era intenzionato a trarne il massimo vantaggio, del Re Lucertola, cioè Jim Morrison. DiCillo, che aveva esordito nel 1991 con il simpatico e stralunato "Johnny Suede", in cui compariva un di belle speranza Brad Pitt nei panni del cantante rockabilly del titolo che non si rassegna al mutare dei tempi; s'era fatto largo nel 1994 con "Si gira a Manhattan", commedia sui generis tra sarcasmo e intellettualismo circa le trappole e le illusioni del Cinema, per vivere poi fasi alterne di ispirazione e di stanca, associa in questo "When you're strange" (dal verso di un classico
di Morrison e soci), presentato al Sundance col commento di J.Depp (Morgan nella versione italiana), la sua vena prettamente surreale al magma impressionistico e lisergico dei materiali recuperati, proponendo una narrazione frammentata e nervosa - spesso interrotta da divagazioni e salti in avanti e all'indietro che a tratti ricordano da vicino una partitura jazz impostata sull'improvvisazione - incalzata sovente dal sovrapporsi di stili e suggestioni figurative diverse (in sintonia con lo sperimentalismo e la grammatica "aperta" dell'epoca): reperti in bianco e nero, quindi, amalgamati a spezzoni di film amatoriali a colori con una tecnica simile al "cut-up" di burroghsiana memoria; sequenze tratte da giornali e notiziari intercalate da
sovraesposizioni, sfocature, inquadrature sbilenche o "ingenue"; reportage da concerti con annessi eccessi di Morrison: capriole, blande deambulazioni, istanti di trance, colluttazioni con la polizia e col pubblico; copertine di dischi e locandine di spettacoli in giro per l'America e l'Europa. Ancora: sfondi naturali incantati giustapposti per associazione a fotogrammi singoli e a rallentamenti dell'azione; fotografie da album di famiglia alternate a scampoli d'interviste in cui Morrison si esprime a stento fiaccato dalla dipendenza da alcool e allucinogeni. E un sottofondo sonoro quasi di continuo a base di brani "storici" - "Love me two times", "The end", "Light my fire", "Break on through", "Raiders on the storm", "Touch me", et. - a cui si avvicendano esecuzioni live. Tutto percorso da un inquietante filo rosso, il repertorio di due documentari riguardanti la band (e rimontati da DiCillo per la bisogna) - "Feast of friends" del 1970 ma soprattutto "HWY" del '69 alla cui realizzazione partecipo' lo stesso Morrison in cui spicca un recitato
sovrimpresso alla voce della radio dell'auto guidata dallo stesso cantante che ne annuncia l'improvvisa dipartita in una stanza d'albergo parigina (estate del '71) nonché l'imminente tumulazione al cimitero Pere Lachaise - che oltre a gettare una luce sinistra quanto premonitrice su quell'intero periodo, su una generazione tutta, su un singolo uomo, timido, estroso, nel profondo braccato dalla solitudine e dalla tristezza, acuisce quel senso di furore precario e malinconico, di generoso sforzo intellettuale e d'investimento sentimentale per valicare le angustie del presente involontariamente votato al fallimento, che pare essere - a dispetto dei tanti anni trascorsi - il vero e ancora vivace lascito di uno slancio utopico che "sentiva" di avere le ore contate; che per sua stessa genesi, appartenenza e prassi (il crogiolo multicolore e contraddittorio del microcosmo giovanile che proprio in questa stagione diventa una categoria sociologica prima, e una tipologia di consumatori poi; il suo atteggiamento ribellistico, totalmente anti-establishment) si opponeva ad uno "stato delle cose" retrivo, subdolamente compiaciuto e autoritario, non di rado corrotto, con le sole armi del vigore fisico, della sensualità, della poesia, della provocazione: arsenale sul serio "non convenzionale" ma che alla lunga si e' rivelato inefficace ed ha implicato - come tristemente avrebbero insegnato gli anni a venire - altissimi prezzi da pagare, fino al sostanziale solipsismo, al ripiegamento para-autistico odierno che - per restare a Cocteau - affonda le proprie radici in territori tanto antichi quanto fin troppo conosciuti: "Le rivoluzioni vengono rimpiazzate molto rapidamente da mode e imperialismi. E' evidente, allora, che una rivoluzione non possa durare molto a lungo. Dopo un po' si radica e quando succede, secondo la lezione che mi diede Radiguet: 'Non
e' mai il pubblico di massa che va contraddetto, ma le avanguardie' e' perché, come egli riteneva, quest'ultima inizia in piedi e finisce per sedersi, diventando ne' più ne' meno che un'abitudine".
In tale prospettiva, l'opera di DiCillo restituisce appieno - con un tanto di comprensibile nostalgia ma senza ipocriti infingimenti - l'aspetto di "squarcio di luce contrastata" di un'eta, la giovinezza, di cui i "Doors" sono stati tra i lampi più vividi e rappresentativi pur permeando di se' -Morrison in vita - poco più di un quinquennio di un secolo tragico come il Novecento; testimonianza di un certo modo - caotico, ispirato, autodistruttivo - di non arrendersi all'evidenza delle cose, dell'autorità, dei rapporti, ed in riferimento al quale l'espressione enigmatica e ammiccante, dispettosa e carica di promesse di Morrison nel noto botta e risposta con i giornalisti all'uscita dell'aeroporto (puntualmente riproposta), continua la sua azione di disturbo della quiete delle apparenze e degli opportunismi, a dimostrazione, forse, che quell'onda prodottasi tanti anni fa scorre ancora, in qualche vena nascosta: basta cercarla un po' più a fondo. "Try to set the night on ire..."...
TFK