Un ragazzo suona la batteria in una piccola sala prove. L’inquadratura lo mostra incorniciato dalla porta della sala in fondo a un corridoio buio, concentrato, chiuso nel mondo che sta creando con la sua musica. Poco dopo vediamo appoggiato a quella porta un uomo, un osservatore, una presenza autoritaria e scorbutica che lo sfida a riprendere a suonare, dopo averlo interrotto col suo arrivo. E il ragazzo ricomincia a suonare, ansioso di sentire il suo parere. Ma l’uomo non c’è più, l’ha lasciato di nuovo solo con la sua musica, dopo averne però stravolto la direzione: non più per il proprio orecchio e perfezionamento ma per l’orecchio altrui, per un giudizio.
Già nella prima scena di Whiplash, straordinaria seconda opera del ventinovenne Damien Chazelle, si trovano tutti gli elementi principali del film, a dimostrazione dell’ammirevole mano ferma del regista e della chiarezza della sua scrittura: la sceneggiatura è sempre di Chazelle.
Andrew, un intenso Miles Teller (da tenere sott’occhio), è un giovane studente in un conservatorio a New York. Il suo sogno è di diventare un batterista jazz degno della fama dei suoi idoli. Il primo passo per farlo è entrare nell’orchestra diretta da Fletcher, interpretato da J. K. Simmons (“caratterista” che i più ricorderanno per l’irresistibile Jonah Jameson dei primi Spiderman, o come il saggio padre di Juno). Peccato solo che il buon Fletcher, tanto largo di vedute da prenderlo nell’orchestra a soli diciannove anni come secondo batterista, sia in realtà un demonio che dirige la sua orchestra come un feroce dittatore: la prima volta che Andrew prova con lui, Fletcher gli tira in testa una sedia che il ragazzo evita per miracolo. Tagliente e implacabile, aggredisce, urla, insulta, prende a schiaffi e spesso i suoi attacchi terminano con il lancio di oggetti addosso al musicista colpevole di non aver compreso il tempo.
Ma in Andrew trova pane per i suoi denti perché Andrew vede nella batteria la sua ragione di vita, quasi il proprio intero universo, al cui interno trovano spazio, sempre più raramente, il padre e una ragazza. In un circolo vizioso oscuro e disturbante che non sembra avere via d’uscita, Andrew discende nella spirale del perfezionismo, nella ricerca dell’assoluto musicale, di quel certo non so che che marca la differenza tra il genio e la mediocrità. Quel genio che per Fletcher si rivela solo attraverso la sofferenza, la sfida velenosa, una disciplina ferrea. Per lui un vero musicista jazz deve spingersi oltre la pratica, perfino oltre gli obiettivi canonici, perché la grandezza è qualcosa che si rivela solo quando tutto il resto è ridotto in macerie.
Andrew si getta anima e corpo all’inseguimento di questa chimera musicale, condividendo questa aspirazione all’eccellenza senza inizialmente avere però la forza di perseguirla fino in fondo. S’innesca così una competizione fortissima, prima ancora che con gli altri batteristi dell’orchestra, con il direttore, prima temuto e rispettato e poi finalmente sfidato. Nel film il jazz viene letto dai suoi protagonisti come tragedia, divinità assoluta e sfuggente che esige sacrifici sanguinari. Sacrifici che vengono ottemperati finché non si raggiunge un apice da cui pare non esservi più ritorno. E la regia segue questo perverso processo iniziatico con un passo agile, mobile e ritmato come il jazz eppure al tempo stesso incalzante e nervoso, con toni da thriller più che da film musicale (vedi il trailer).
E’ questa la trovata a mio avviso più geniale di Damien Chazelle, il ribaltare i canoni, costruendo attraverso un’oscura tensione, un racconto di formazione e di creativa aspirazione al meglio, qualunque cosa esso sia. Ne risulta un film a tratti ruvido e implacabile come Fletcher, ma al tempo stesso onesto e coraggioso come Andrew, in una perfetta aderenza di testo, senso e interpretazioni attoriali. Un impasto vincente che gli ha fatto collezionare candidature e premi, in un percorso cominciato con i Grand Jury Prize e Audience Award al Sundance Festival e culminato con i ben tre Oscar del 22 febbraio scorso. Il primo a J. K. Simmons, meritatissimo nonostante gli avversari eccellenti, che conferma la promessa dei vari premi raccolti nella sempre più affollata award season. Gli altri due per il sound mixing, forse più scontato, e il terzo al montaggio, essenziale nella costruzione del ritmo incalzante della narrazione.
In un’annata forse non brillantissima, ma che comunque schierava nobili concorrenti, è un risultato notevole che fa riflettere sulla possibilità che un film indipendente, fortunatamente ha ancora di concorrere alla pari con grandi produzioni e cast stellari.
Un andamento virtuoso che pare confermato dalle quattro statuette raccolte da Birdman e Grand Budapest Hotel: due film non di mainstream ma opere di autori raffinati con una visione chiara e personale come Alejandro Gonzáles Iñárritu e Wes Anderson.
Un’edizione degli Oscar, questa, per il resto tutto sommato abbastanza prevedibile e con premi generalmente meritati, a partire da quello per i migliori costumi all’italiana Milena Canonero.
Personalmente ho due sole perplessità e sono per i premi alla sceneggiatura, originale e non. Gli Oscar sono andati rispettivamente a Birdman e a The Imitation Game: due bei film, il primo sicuramente più originale e completo, il secondo illuminato da un Benedict Cumberbatch come sempre superlativo. Ma in tutta onestà avrei privilegiato Gran Budapest Hotel e Gone Girl, forti di una scrittura raffinata, curata, avvincente e mai superflua, che creava un perfetto meccanismo a incastro.
Film memori dei maestri del passato, senza però citarli smaccatamente, come fa il (finto) piano sequenza di Birdman con Rope – Nodo alla gola di Hitchcock, e soprattutto senza mai annoiare la platea come ahimè il pur solido The Imitation Game.
Voi, che ne pensate?