Eppure nella pellicola scritta e diretta da Damien Chazelle ci sono delle piccole sfumature, sufficienti abbastanza, a spostare il peso specifico di quello che poteva essere un prodotto ordinario a un livello nettamente superiore e di straordinaria eccellenza. In particolare l'entrata in scena del direttore d'orchestra dai comportamenti militareschi, violenti e devastanti affidato al magnifico caratterista J.K. Simmons, perno fondamentale per l'evoluzione di un archetipo finalmente svestito della componente drammatica o favolistica e trascinato in un contesto reale, credibile, ma soprattutto profondamente comprensibile. La grandezza secondo lui è raggiungibile esclusivamente sotto pressione psicologica, il termine bel lavoro è il peggiore che si possa ricevere, ed è solo attraverso la dedizione e l'allenamento estremo che l'essere umano può trovare la via per affermarsi unico o comprendere di non essere all'altezza di ciò che stava inseguendo. Lo spiegherà chiaramente - in una delle poche scene dialogate a disposizione - dritto in faccia al batterista protagonista, Miles Teller, il ragazzo con il quale instaura un rapporto odio-amore-odio, inevitabilmente colonna vertebrale e forza motrice della storia. Una storia che, tuttavia, stringe il proposito di non sporcarsi troppo con le parole e che sa raccontare ogni particolare che c'è da sapere avvalendosi il più possibile delle sessioni jazz musicali in cui volano parolacce, sedie, piatti e fuoriescono emozioni e tensioni.
Una condizione necessaria, che si accetta con saggezza, per niente paragonabile a quello che il personaggio di Teller affronta pur di arrivare a soddisfare le richieste del suo insegnante e nemico, ma che comunque restituisce, una volta che "Whiplash" chiude i battenti, un pieno di contentezza che non pensavamo assolutamente di raggiungere. Una contentezza che al cinema è rara e che sanno elargire solo i grandi film. Quelli rinominati in seguito capolavori.
Piccoli o grandi che siano.
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