Giappone, 126 minutiRegia: Sion SonoSceneggiatura: Sion Sono
Finalmente lontano dal vortice morboso che rischiava di farne affondare bravura, ingegno e soprattutto la lucidità di uno sguardo piuttosto unico nel panorama giapponese, è un piacere riscoprire Sion Sono alle prese con tematiche assai più leggere che in passato ma che paradossalmente ne rafforzano e ne esaltano tutti quei tratti (scrittura, gestione dei personaggi, dialogo) che in questi ultimi tempi a stento affioravano sotto strati di lurida sessualità, ostentate perversioni e un'insistita drammaticità. Why don't you play in hell è probabilmente una commedia, ma non è il caso di configurarne forzatamente il genere, d'altronde la mezz'ora finale è una mattanza splatter di furibonda ferocia, ma è proprio nell'equilibrio tra i generi che sta la bellezza di questo film surreale e tragicomico, violentissimo e amaro, dove l'impronta di Sono è ovviamente ben presente e immancabile (l'ingenuità dell'amore adolescenziale da una parte, ma anche certe parentesi morbose dall'altra, come un bacio tra due bocche piene di cocci di vetro o dell'infatuazione impossibile tra l'adulta Ikegami e l'ancora bambina Mitsuko) ma fortunatamente libera da quella pesantezza forzata e insistente, da quella ricerca buia e abissale dei pruriti umani che avevano fatto precipitare thriller altrimenti tostissimi (Cold Fish e Guilty of Romance), ma anche lirici drammoni umani che davvero, meglio Buona Domenica (Himizu).
Solare, divertito, frizzante, Sono recupera una sceneggiatura vecchia di quindici anni (e forse non è un caso che tanta sobrietà sia giustificata dalla sua età) per inscenare uno scontro, non solo fisico ma soprattutto figurativo, tra due famiglie yakuza, una più moderna e oggettivamente gangster, l'altra invece legata alla tradizione e all'onore del samurai. Nel mezzo c'è più o meno di tutto, a partire da uno strato metacinematografico mica da ridere, o meglio, creato con la giusta intelligenza per poterne sorridere, con una troupe cinematografica amatoriale fatta di scemi esaltati e interessati solo a creare un film con un Bruce Lee giapponese (il grande Tak Sakaguchi), e con la giovane Mitsuko costretta a diventare star di un film con cui il padre vuole scusarsi di un torto fatto dieci anni prima alla madre, passando per fughe romantiche, conti lasciati in sospeso, rapimenti imbarazzanti e lunghi, lunghissimi sogni a occhi aperti.
Il ritmo è elevatissimo e tanti sono gli elementi gioco, ma Sono gestisce con molta scaltrezza la complessità sociale della sua storia, un montaggio feroce e una caratterizzazione esemplare dei personaggi permettono infatti di dettare tempi rapidi ma perfetti per bilanciare la ricchezza psicologica e narrativa di un film lungo (due ore e dieci molto dense), che solo dopo ottanta minuti buoni incanala ogni dettaglio al suo posto per spianare un'autostrada che porti alla conclusione. E che conclusione, dato che Sono, dopo aver sfoggiato una grande abilità nel tenere insieme umorismo demenziale e puro astrattismo nipponico nelle espressioni e nell'uso di certi suoni, dialoghi chilometrici che esplodono dal carisma di ogni protagonista e improvvisi sprazzi sanguinari, scatena l'uno contro l'altro in una battaglia assurda e impossibile ma di una bellezza indescrivibile, figlia di richiami anche a certa stupidità della Sushi Typhoon (gli arti mozzati) ma di un'eleganza che nulla ha a che vedere con certa poesia (qui non si parla di Miike e dei suoi 13 assassini, o di qualsiasi altro film che veda lunghi scontri coreografrati da maestri di arti marziali): l'umorismo di cui è pregno questo estenuante duello è talmente piacevole e poco appariscente, pur nell'esagerazione della situazione, a dir poco ridicola, che rende credibile, nell'economia e nel messaggio del film, ogni istante, anche i più urlati e deficienti, anche i più gore e improbabili (mani recise che sparano litri di sangue, decine di teste mozzate che saltellano) diretti con una serietà e una regolatezza da far impallidire.