La dotazione che ha portato con sé comprenderebbe trentatré cittadini americani a cui sono state affidate funzioni varie e che verranno sostituiti ogni sessanta giorni. Diciotto di questi “operatori”, come sono definiti dagli osservatori statunitensi, sono suddivisi in tre squadre armate che a turno sarebbero incaricate della sicurezza dei trasporti navali. La marina di Gibuti, inoltre, garantirebbe alla Blackwater forniture di armi (tra cui cinquanta mitragliatrici calibro .50) e lo scopo, sempre stando ai cablogrammi americani, non sarebbe tanto quello di supportare le forze di polizia nella cattura dei pirati, ma di usare «forze letali contro [di loro], se necessario». Insomma, il messaggio è che non si fanno prigionieri, a differenza per esempio dei francesi, che hanno allestito aree di detenzione per i pirati nella regione nord-orientale del Puntland.
Ma per capire meglio cosa si intende con “se necessario”, occorrerebbe avere accesso alla “standard operating procedure” (Sop) di cui si parla nei cablogrammi, procedura che era in corso di stesura nel momento in cui le comunicazioni diplomatiche lasciavano il Corno d’Africa per raggiungere gli Stati Uniti e di cui esisterebbero, almeno in parte, testimonianze filmate dalla McArthur, la nave utilizzata dalla Blackwater in quei mari. Negli stessi documenti dell’ambasciata in Africa si aggiungeva che la società americana non avrebbe offerto i propri servizi a committenti privati, ma si sarebbe “limitata” a collaborare con il governo della Repubblica di Gibuti in tema di sicurezza dei trasporti. Il tutto per un costo di 200 mila dollari a viaggio.
Così si sarebbe stabilito nel corso delle trattative. Ma i documenti divulgati da Wikileaks contengono anche non pochi punti interrogativi, legati a una constatazione: «La presenza della Blackwater potrebbe costituire uno dei più ampi business americani in zona», in forza di una politica commerciale che Gibuti ha inaugurato cercando di attirare investitori stranieri, contractor compresi. Venendo alle domande, però, notano gli americani, l’accordo avviene in un periodo in cui il fenomeno della pirateria marina al largo delle coste somale sembra un declino. Nel gennaio 2009, infatti, gli assalti registrati erano stati tre e nelle acque di Gibuti c’erano già altre forze che conducevano attività analoghe.
Tra queste, l’operazione Atlanta dell’Unione europea, che fornisce scorte armate ai bastimenti in transito. E poi ci sono singole nazioni presenti con lo stesso scopo, tra cui Spagna, Francia, Gran Bretagna e Olanda. Inoltre a fine 2009 era stata annunciata l’intenzione di Giappone e Corea di inviare propri contingenti navali. A tutto questo si aggiunga che il governo di Gibuti fa parte dei membri fondatori del “Contact Group on Piracy off the Coast of Somalia” (Cgpcs) e che offre basi logistiche a organismi di coordinamento nel contrasto al fenomeno.
Evidentemente tutta questa attività non è stata sufficiente se è stato necessario sottoscrivere un contratto anche con una delle principali multinazionali della sicurezza privata e degli eserciti a pagamento. Che in zona si sarebbe attrezzata in proprio anche per eventuali esigenze sanitarie. L’allestimento di questo pezzo di attività ha visto il coinvolgimento diretto dei referenti locali di una società londinese, la Inchcape, con una lunghissima storia alle spalle nel supporto alle attività di espansione coloniale in Asia e nell’Oceano Indiano e che oggi impiega 3.500 persone in 66 Paesi differenti.
Ma – avverte PeaceReporter riprendendo Associated Press – Blackwater e Inchcape non sono le uniche società a coltivare grossi interessi nel Corno d’Africa mentre infuria, senza intravedere ufficialmente alcuna soluzione, il conflitto iniziato nel 1991. In un servizio pubblicato a dicembre 2010 dal titolo “Somalia, il mistero dell’esercito fantasma”, il giornalista Alberto Tundo racconta di un altro gruppo armato privato dell’ugandese Saracen International con oltre mille uomini di stanza nel Puntland. A finanziarlo sarebbe un non meglio precisato Paese islamico e nel suo entourage compaiono ex appartenenti alla Cia ed ex diplomatici americani. Ufficialmente, anche in questo caso, sarebbe una forma di contrasto alla pirateria, ma dichiara un analista dell’International Crisis Group, E.J. Hogendoorn: «Ci sarà un do ut des in termini di petrolio e gas».
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio 2011 del mensile La voce delle voci)