Wikileaks ne è un esempio al punto da pagare le conseguenze che ciò ha determinato. Non solo per le accuse per violenza sessuale formulate in Svezia contro Julian Assange (in realtà determinate dall’uso o meno di un preservativo, i rapporti erano consenzienti per ammissione delle stesse presunte vittime). Ma anche per la dimostrazione che la net neutrality – in base alla quale l’infrastruttura telematica che avvolge il pianeta deve coniugare il verbo dell’agnosticismo rispetto ai contenuti che vi transitano – può andare in frantumi in qualsiasi momento. È accaduto quando Amazon ha rescisso il contratto per gli spazi server venduti (e pagati) dall’organizzazione o con le società di carte di credito e con Paypal che hanno tagliato i canali di finanziamento.
È un punto su cui torna a più riprese Stefania Maurizi, la giornalista dell’Espresso, terminale italiano della rete di giornali di tutto il pianeta che ha collaborato con Wikileaks e con il suo leader, Assange. Presentando a Bologna il suo Dossier Wikileaks – Segreti italiani (Bur) ospite della libreria Modo Infoshop, la cronista, che ha iniziato a essere dentro il progetto dal 2009 e che ha seguito il rilascio degli Afghan War Logs, dei documenti su Guantanamo, dei cablogrammi diplomatici e degli spy files, rimarca che “non c’è alcun elemento legale per il taglio delle donazioni”.
E aggiunge: “Addirittura i senatori statunitensi che hanno richiesto al Tesoro americano di imporre sanzioni economiche a Wikileaks si sono sentiti rispondere picche perché non c’era alcun pretesto formale per farlo, l’organizzazione non aveva compiuto alcun atto illegale”. Maurizi sfata poi un altro mito. “Assange uomo al soldo di qualche servizio segreto? All’inizio diffidavo del progetto, segnalatomi anni fa da una fonte quando lui e i suoi collaboratori erano del tutto sconosciuti. Non ho mai voluto mischiarmi al mondo dell’intelligence e sulle prime ci sono andata cauta, ma lavorando con loro ho visto che non si tratta di un gioco di spie”.
Il gioco è un altro: avere a disposizione documenti integrali e non censurati da omissis che accelerino l’accertamento di alcuni fatti, come parte dei cosiddetti “segreti italiani”. E qui entra in gioco Daria Bonfietti, presidente dell’associazione delle vittime della strage di Ustica, quando un aereo della compagnia Itavia, un Dc9, venne abbattuto nell’ambito di un’operazione di guerra il 27 giugno 1980 portando con sé 81 persone. Bonfietti, che dialogava con Maurizi nel corso della presentazione, ricorda gli anni che ci sono voluti perché da cedimento strutturale si iniziasse a parlare di missile (una decina) e poi altri ancora, arrivando fino al 1999, perché si sapesse cos’era accaduto con la sentenza ordinanza di Rosario Priore.
“Da quell’anno sappiamo come si sono svolti i fatti”, dice la presidente delle vittime e già senatrice della Repubblica. “Il problema che permane è duplice: accertare in sede giudiziaria a causa di chi avvenne quella sciagura (e ora con l’inchiesta partita nel 2007, oltre che con il coinvolgimento del parlamento europeo, spero che vedremo dei passi avanti) e smentire le menzogne che vengono propalate da personaggi fino a poco tempo fa al governo, come quelle dell’ex sottosegretario Carlo Giovanardi”.
Giovanardi, nei cablo diplomatici diffusi da Wikileaks in relazione al caso Ustica, è citato a proposito della richiesta fatta agli Usa di appoggiare la smentita tesi della bomba a bordo. E sono citati anche i politici Giuliano Amato e Salvo Andò, messi sotto osservazione stretta dal governo di Washington quando l’ipotesi dello scenario di guerra prese corpo, all’inizio degli anni Novanta con le prime perizie – poi confermate – che lo delineavano.
“Fu a quel punto”, afferma ancora Daria Bonfietti, “che la reazione degli Stati Uniti diventò feroce e si iniziò a diffondere il falso, cioè che l’aereo era stato abbattuto da u. ordigno esploso in volo”. E ricorda come – in anni in cui Wikileaks era ancora lontano e Assange era solo un tardo adolescente che aveva cambiato 37 scuole per sfuggire insieme alla madre al patrigno – era ricorsa a uno strumento a stelle e strisce per conoscere la verità, il Freedom of information act (Foia), introdotto nel 1966 da Lyndon B. Johnson per consentire ai cittadini americani di avere acceso agli atti della pubblica amministrazione.
Al termine dell’iter burocratico, i documenti Usa arrivarono in Italia, ma pesantemente “nerettati” dagli omissis. “Che sarebbe accaduto nel 1992 se avessimo avuto uno strumento come Wikileaks che ci consentisse di leggere integralmente quello che era avvenuto nei cieli di Ustica anni prima delle risultanze istruttorie?” chiede Stefania Maurizio.
“Il problema”, rincalza Daria Bonfietti, “non sono solo le classifiche sui documenti, che prima o poi scadono, ma è l’inaccessibilità del materiale, che spesso, come nel nostro caso, viene distrutto. Della sera in cui fu abbattuto il Dc9, rimane solo il tracciato di Ciampino, insieme alle telefonate intercorse tra le postazioni radar e i comandi militari, oltre che con gli americani. È arrivato il momento di dire che si deve aprire un altro tipo di battaglia: quella per il diritto di cittadinanza che passa attraverso la trasparenza delle istituzioni”. In altre parole che si avvii, come stanno già chiedendo gruppi di attivisti e di giornalisti italiani, l’ideazione di un Foia tricolore.