William Blake
Poeta, incisore, pittore, mistico. Nacque e morì a Londra rispettivamente nel 1757 e nel 1827. Terminò La scuola di disegno e ancora giovanissimo studiò incisione con Henry Basire. Su commissione copiava note opere, progettava lapidi e illustrava i libri. Nel 1779 si iscrisse alla Royal Academy of Arts, ma non la terminò a causa del suo carattere troppo eccentrico e della sua indipendenza di giudizio, che contrastavano con il rigido tradizionalismo della scuola. In particolare irritavano le sue opinioni sulla creazione di Joshua Reynolds, fondatore e primo presidente dell’Accademia, la cui pittura Blake aveva definito “deprimente”. Blake criticava anche i paesaggisti alla moda, come ad esempio Claude Lorrain, nonché la pittura veneta e fiamminga di Tiziano e Rubens. Verso la fine degli anni ’70 incontrò il favore dei mecenati John Flaxman e George Cumberland, che lo aiutarono a pubblicare la sua prima raccolta di poesie (1783).
Fu un visionario affascinato dal misticismo e dalle illuminazioni religiose, che ritroviamo nella sua produzione artistica e letteraria. Asseriva di aver avuto visioni fin dall’infanzia. A quattro anni gli era apparso Dio dietro la finestra, mentre a nove anni, passeggiando nei campi, aveva visto un albero pieno di angeli.
Nel 1793 uscì The book of Thel, e negli anni seguenti videro la luce i libri della mitologia di Blake: The book of Urizen e The book of Los, espressione del misticismo dell’autore e ricchi di contenuto esoterico.
Trasferitosi da Londra in campagna (1800), scrisse i poemi Milton, considerati la più importante opera mistica del poeta. Verso la fine della sua vita illustrò il Libro di Giobbe. Queste incisioni sono ammirate ancora oggi e paragonate alle opere di Rembrandt. Cominciò a illustrare anche la Divina Commedia, ma non terminò questo suo lavoro.
Non compreso dai contemporanei, che vedevano in lui soprattutto un folle, Blake fu particolarmente apprezzato nell’ambito della corrente preraffaellita, e annoverato in seguito tra i precursori del romanticismo nell’arte inglese del XVIII secolo, nonché del simbolismo.
Di William Blake ho tradotto i quattro Canti delle Stagioni. Numerose sono le interpretazioni date a queste poesie. In generale esse possono riferirsi alle differenti fasi della vita e della civiltà umana. Alcuni ritengono che il soggetto sia la poesia stessa, mentre altri credono che attengano più alla religione e alla natura. La quattro invocazioni possono essere lette come poesie a se stanti, ma Blake le considerava anche come un ciclo, e in quanto tali vengono spesso interpretate come espressione di rinascita e di morte. Inoltre questi Canti possono essere letti anche come raffigurazioni degli spiriti di Blake: Tharnas (la primavera), Orc (l’estate), Los (l’autunno) e Urizen (l’inverno).
I Canti delle Stagioni tradotti da Paolo Statuti
Alla primavera
O Tu, cui la rugiada i capelli irrora, e guardi
Attraverso i chiari vetri dell’aurora, volgi
I tuoi angelici occhi alla nostra isola
Che ti saluta intonando un coro, o Primavera!
Le colline ripetono il tuo nome e le valli
Ascoltano; i nostri occhi con nostalgia
Guardano i tuoi lucenti tendaggi: vieni,
Permetti ai tuoi santi piedi di visitarci!
Fermati sui colli dell’est, lascia che i venti
Bacino i tuoi abiti fragranti; lasciaci
Gustare il tuo respiro al mattino e alla sera.
Imperla la nostra terra malata d’amore per te.
Oh adornala con le tue leggiadre dita,
Versa i tuoi soffici baci sul suo petto; posa
La tua corona d’oro sulla sua languida testa,
Le cui modeste chiome ha intrecciato per te.
All’estate
O Tu, che attraverso le nostre vallate
Passi con forza, frena i tuoi selvaggi corsieri,
Mitiga il calore che erompe dalle loro narici!
O Estate, pianta spesso qui la tua tenda d’oro,
Sotto le nostre querce, addormentati mentre
Guardiamo con gioia le tue rigogliose chiome.
Tra le nostre dense ombre spesso abbiamo udito
La tua voce, quando al meriggio sul carro ardente
L’oceano dei cieli solcavi; presso le nostre fonti
Siediti, e nelle nostre valli muschiate,
Sulla riva di un limpido fiume, togliti i tuoi
Serici drappi, e lasciati portare dalla corrente:
Le nostre valli amano l’estate nel suo sfarzo.
Qui sono celebri i bardi e le loro corde d’argento,
Qui i giovani sono più audaci dei pastori del sud,
Le nostre fanciulle sono più belle nella danza.
Non ci mancano i canti, né strumenti di gioia,
Né dolci echi, né acque terse come i cieli,
Né ghirlande di lauro contro il caldo afoso.
All’autunno
O Autunno, carico di frutti e macchiato
Di sangue dell’uva, non andartene, ma siedi
Sotto il mio tetto ombroso; qui puoi riposare,
Accorda la tua lieta voce al mio flauto,
E tutte le figlie dell’anno danzeranno!
Canta ora il canto rigoglioso di frutti e fiori.
“Un bocciolo stretto schiude la sua bellezza
Al sole, e l’amore corre nelle frementi vene,
I fiori pendono dalla fronte del Mattino, e
Avvolgono il luminoso volto della Sera,
Finché dell’estate di san Martino si udrà il canto,
E nuvole piumate copriranno di fiori la sua testa.
Gli spiriti dell’aria vivono negli odori
Dei frutti. E la gioia, aleggia intorno
Ai giardini, o siede cantando sugli alberi.”
Così cantava l’allegro autunno e si sedette.
Poi si alzò, si cinse, e sulle pallide colline
Sparì dai nostri occhi. Ma lasciò tutto il suo oro.
All’inverno
O Inverno! Spranga le tue porte adamantine:
Il nord è tuo; là nella fonda terra hai eretto
La tua oscura dimora. Non scuotere
I tuoi tetti, né le colonne col tuo carro di ferro.
Non mi ascolta e sull’abisso spalancato
Rotola greve. Le sue tempeste infuriano;
In una guaina d’acciaio, non oso alzare gli occhi
Perché ha levato in alto il suo scettro sul mondo.
Guarda! Un orrido mostro, la cui pelle aderisce
Alle sue forti ossa, corre sulle gementi rocce:
Riduce tutto al silenzio, e la sua possente mano
Spoglia la terra, e congela la fragile vita.
Prende posto sulle scogliere, il marinaio
Grida invano. Povero diavolo! Egli fronteggia
Le tempeste, finché il cielo non sorride e il mostro
Torna urlando alle sue caverne nel monte Hekla.
(C) by Paolo Statuti