William Buehler Seabrook (Pt.1)
Creato il 25 maggio 2015 da Theobsidianmirror
William Buehler Seabrook (1884-1945) è stato uno dei personaggi più controversi vissuti a cavallo fra il XIX e il XX secolo, un giornalista arguto ma, soprattutto, una sorta di moderno Marco Polo i cui resoconti di viaggio ebbero un incredibile successo e sono tuttora oggetto di culto.
Amante dell'avventura, curioso fino all'estremo, Seabrook incarnava il tipico, irriducibile avventuriero che, per pura sete di conoscenza, sfidava il pericolo e oltrepassava (poi vedremo meglio come) i limiti tra normale e a-normale, lecito e illecito.
Seabrook fu inoltre uno sfrenato edonista. Alcolista, consumatore abituale di alcol e droghe, sadico che (leggenda narra) non si separava da frustini e catene nemmeno quando viaggiava, fu anche un essere umano dalle molte ombre. Senza per forza volerne fare un’apologia, ma nemmeno demonizzarlo, non posso negare che ammiro il suo spirito inquieto e indomito ed è proprio questo che oggi, a quasi settant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1945, voglio ricordare.
Il nostro nacque nel 1884 nel Maryland, a Westminster e, se si eccettua una parentesi come pubblicitario e una come guidatore di ambulanze nell’esercito americano di stanza in Francia durante la Prima Guerra Mondiale (che gli valse una medaglia), si occupò sempre di giornalismo, dapprima come caporedattore dell’Augusta Chronicle e poi come giornalista presso il New York Times. I suoi racconti di viaggio venivano telegrafati in patria a riviste come Vanity Fair, Cosmopolitan e il Reader's Digest e poi venivano raccolti in volumi che, immancabilmente, diventavano dei best seller.
Tre di essi sono particolarmente significativi e sono appassionanti come dei romanzi: “The Magic Island” (1929), “Asylum” (1935) e “Witchcraft: Its Power in the World Today” (1940). Non molti sanno che la diffusione del termine zombi, che appartiene ad alcuni dialetti del Niger e del Congo, si deve proprio a Seabrook, che per primo lo utilizzò nel suo libro “The Magic Island”. Per la verità, prima di lui già Lafcadio Hearn, dopo un decennio trascorso a New Orleans, nel 1889 si era recato nei Caraibi per conto dell’Harper’s Magazine per appurare la verità circa presunti avvistamenti di morti viventi. Lì aveva trovato una terra dove l’oscurità della notte sembrava più viva e animata del giorno, ma nonostante avesse raccolto decine di testimonianze di fenomeni inspiegabili e avvistamenti anomali non fu mai in grado di vedere uno zombi con i propri occhi. Seabrook fu invece il primo uomo bianco ammesso alle celebrazioni dei riti Voodoo o, quantomeno, fu il primo a testimoniare di una simile esperienza, e lo fece in toni così appassionati e sensazionalistici che finì, paradossalmente, per indebolire la causa per cui egli stesso si batteva: l'autonomia di Haiti (gli Stati Uniti, ricordiamolo, occuparono l'isola dal 1915 al 1934). “The Magic Island” è la cronaca di un soggiorno di un anno che fu, prima di tutto, incanto dei sensi ed esperienza emozionale senza pari: un viaggio ad Haiti, il primo territorio coloniale a ribellarsi e affrancarsi dalla schiavitù, nonché la prima repubblica nera.
La prosa di Seabrook ci trasporta in una terra del mistero in cui gli agi della modernità convivono con le manifestazioni di una natura ancora in gran parte selvaggia, le cui oscurità celano la stregoneria, la magia nera, il cuore pulsante di una religione e i cui rituali (canti e danze forsennate, mangiare carne, bere sangue, resuscitare i morti) e sacrifici appaiono affascinanti e insieme terrificanti: il Voodoo. Una religione mai soppiantata nell’isola ed anzi rinata ancora più forte dalle ceneri del Cattolicesimo, in cui i simboli della cristianità si mescolano a quelli “pagani”, rivelando un'eredità derivata dalle credenze degli indigeni Taínos mesolate a quelli degli schiavi deportati dall'Africa Occidentale e Centrale e a quelle dei colonizzatori europei. Anche se Seabrook aveva affermato chiaramente che le cerimonie Voodoo dei sacerdoti bòkò avevano lo scopo di procurarsi schiavi da utilizzare come braccianti nei campi di canne da zucchero e nelle fabbriche di proprietà delle multinazionali, quel che rimase nella memoria collettiva fu l'immagine degli haitiani come popolo dalla natura sfrenata e superstiziosa, preda di un istinto atavico e animale e perciò incapace di autogestirsi. Ironia della sorte, dopo che gli Stati Uniti ebbero reintrodotto la prassi coloniale del lavoro di corvée, che alimentava le pratiche Voodoo, usarono proprio l'esistenza di queste ultime come pretesto per mantenere il controllo sul paese. Il Voodoo non lo si deve certo agli americani, ma la metafora delle sue vittime “zombificate” e rese schiave del potere, del razzismo e della negazione dei più basilari diritti umani – ritratta al cinema dal capostipite del genere, quel "L'isola degli zombies" (White Zombie, 1932) che vedeva da Bela Lugosi nella parte del villain - in un mondo sempre più globalizzato e consumista, certamente sì.
Se nei decenni a seguire lo zombi si radicò nell'immaginario mondiale come mostro al pari, ad esempio, del vampiro e del licantropo, fu merito di un altro film: “La notte dei morti viventi” (Night of the living dead, 1968). Nella mente dell'autore George A. Romero questo doveva essere un piccolo film, realizzato con un risicato budget di circa centomila dollari, nel quale infondere idee disparate e soprattutto il suo amore per il cinema, ma che finì per divenire (tra le altre cose) il manifesto forse involontario di una riflessione antirazzista esplicitata dal protagonista, Ben, giovane uomo di colore che nel finale viene ucciso da un poliziotto bianco (twist scioccante che, a quanto pare, fu fortemente voluto proprio dall'attore che interpretava Ben, Duane Jones).
Senza dilungarsi troppo, vale la pena ricordare però che Romero inizialmente non aveva concepito i suoi mostri come zombi in quanto lo zombi, per lui, aveva una precisa connotazione geografica, e fu soltanto con il successivo “Zombi” (Dawn of the dead, 1978), che ne proseguì la riflessione socio-politica, che le figure dello zombi e del morto vivente collisero. Oggi vanno di moda gli zombi veloci, ma io sono affezionato a quelli lenti di Romero (tra l'altro, non capisco come potrebbe un morto correre, anche supponendo che fosse stato resuscitato da un virus! Ma forse difetto di fantasia). A questo punto bisogna sottolineare l’ovvio, ovvero che, nell'ottica haitiana, uno zombi non è affatto morto, ma normalmente si tratta di qualcuno il cui ti-bon anj (“piccolo angelo”), la parte dello spirito che regola la memoria e la consapevolezza, è stato separato dal corpo e rinchiuso in un vaso (ovvero imbottigliato: vi ricorda qualcosa?): questo diventa il “corpo astrale”, mentre il suo “cadavere” continua a vagare sulla terra. Questa confusione di termini (rispetto a come noi siamo abituati a ragionare, ovviamente) dovette creare più di una perplessità a coloro che, come Lafcadio Hearn, venivano per la prima volta in contatto con la realtà del Voodoo… Comunque, mentre le vittime del Voodoo si trovano in uno stato reversibile, insomma sono vive e dotate di un cervello integro, sebbene sotto influenza esterna, gli zombi di Romero sono letteralmente morti che camminano, sono anomalie che sfidano le leggi naturali ma, paradossalmente, sono anche liberi e autonomi. Ci fu insomma un “pre” e un “post” Romero: con lui zombi divenne sinonimo di morto vivente che (altra novità) bracca i vivi per nutrirsi senza sosta della loro carne e che può essere ucciso, definitivamente, solo distruggendone il cervello.
E, a proposito di carne umana, anche Seabrook in almeno un'occasione se ne cibò. Non per necessità o per motivi culinari, se così si può dire, ma per pura e semplice curiosità. Una curiosità nata durante un soggiorno in Africa ma soddisfatta solo al suo rientro in Europa, in Francia. Ma di questo parleremo tra pochi giorni, nella seconda parte..
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