William Buehler Seabrook (Pt.2)
Creato il 30 maggio 2015 da Theobsidianmirror
Nel 1929 William Buehler Seabrook cominciò un lungo viaggio che dalla Costa D'Avorio lo portò oltre diecimila chilometri più in là, a est di Timbuktu, nelle terre natie del semisconosciuto e misterioso popolo degli Habbe. Durante questo periodo, com'era sua abitudine, Seabrook si mischiò alle popolazioni locali, vivendo nei loro villaggi e, ove possibile, imparandone le lingue e i dialetti. Le sue esperienze in Africa sono raccontate nei libri “Jungle Ways” del 1931 e “The White Monk of Timbuctoo” del 1934. Nel primo, in particolare, dopo una prima parte che segna una vera e propria immersione nella natura e nella magia primitiva di quei luoghi, viene descritto il suo incontro con la tribù dei Guéré, un'etnia del popolo dei Wé che era dedita a pratiche stregonesche e al cannibalismo.Si trattava di una forma di cannibalismo rituale praticata nei confronti dei nemici uccisi in guerra per cui i vincitori si cibavano del cuore e dei genitali dei vinti per acquisire la loro forza e la loro virilità, e che in senso metaforico sopravvive ancora oggi nella definizione dei maghi come "mangiatori di anime”, oltre che nel nome stesso della tribù (guéré significa proprio mangiare, fagocitare). Non si trattava certo di eventi straordinari né per l'epoca né per la collocazione geografica, sebbene con una risonanza nemmeno lontanamente paragonabile a quella, ad esempio, di analoghe pratiche del passato remoto - come i sacrifici religiosi aztechi che, chissà perché, sono avvolti da un’aura quasi mistica. Comunque, pare che Seabrook avesse domandato al capo villaggio che gusto avesse la carne umana ma fosse rimasto insoddisfatto della risposta, e così, recatosi a Parigi, qualche tempo dopo, fosse riuscito a procurarsi tramite lo stagista di un ospedale delle sezioni di un corpo umano appartenute ad una persona appena perita in un incidente. Una parte della carne la consumò col riso, a mo’ di stufato, l’altra la cucinò come una bistecca, e poi riferì che per consistenza, colore, odore e gusto somigliava in tutto per tutto a carne di vitello (It was like good, fully developed veal, not young, but not yet beef.). Altra sinistra fama gli derivò dalla sua amicizia con l’occultista inglese Aleister Crowley, documentata fra l’altro nell'opera (di Seabrook) “Witchcraft: Its Power in the World Today”.
Seabrook era affascinato dalla personalità di Crowley, anche se in alcune occasioni espresse dei dubbi circa la vera natura dei suoi poteri, come nel resoconto di quanto accaduto un giorno sulla 5th Avenue, a Manhattan. In quell'occasione Seabrook e Crowley passeggiavano lungo un percorso scelto dallo stesso Crowley, quando questi si era messo a seguire un uomo alto, distinto, per un intero isolato, sincronizzando il proprio passo con il suo e, accasciatosi di proposito sulle ginocchia, sembrava averlo indotto a cadere a sua volta. Seabrook notò che, dopo la caduta, l'uomo pareva disorientato e, quando lo ebbero aiutato a rialzarsi, si mise a cercare una buccia di banana sulla quale era convinto di essere scivolato; dopo averci ragionato su, Seabrook concluse che non poteva escludere nessuna ipotesi, né che la vittima dell'esperimento, diciamo così, potesse essere un complice istruito da Crowley a cadere, né che si fosse verificata una sua immedesimazione inconscia con Crowley (una sorta di stato di ipnosi indotta dal ritmo dell'andatura e dal suono dei passi sul selciato, insomma) né che, infine, quest'ultimo fosse davvero dotato di poteri soprannaturali.
Nessuna di queste ipotesi lo soddisfaceva completamente perché di fondo, sebbene fosse interessato all’occultismo, a differenza di Crowley tendeva a razionalizzarne le manifestazioni, rilevando che tutti i fenomeni che era stato in grado di osservare direttamente, con i propri occhi, in realtà avrebbero potuto anche trovare una spiegazione scientifica. Comunque, tali dubbi non gli impedirono di continuare a stimare Crowley e a finanziarlo durante gli anni (dal 1914 al 1919) in cui la Grande Bestia rimase in esilio negli Stati Uniti e, pur essendo già famoso, non possedeva il prestigio sociale che si era lasciato dietro nella natia Inghilterra e soprattutto dei mezzi economici che gli consentissero di autofinanziare i suoi Ritiri Magici. Nell'autunno del 1919 Seabrook lo ospitò persino nella sua casa nei pressi di Atlanta, e non sembrò affatto impensierito quando sua moglie Kate, per breve tempo, divenne una delle partner di Crowley nei suoi riti di magia sessuale. Proprio come non aveva voluto limitarsi ad osservare riti antropofagi senza assaggiare a sua volta la carne umana, Seabrook non si limitò a fruire della magia bianca e nera da spettatore, ma volle praticarle entrambe. Anche “Witchcraft: Its Power in the World Today” in un certo senso è un diario di viaggio, quello fra le streghe del mondo moderno che si trovano tanto nelle aree più primitive che nel cuore delle civilizzate America ed Europa, e assumono il nome di negromanti, satanisti, vampiri, uomini-pantera, licantropi, eccetera. A testimonianza della duplice natura di curioso fruitore e di imparziale cronista del suo autore, questo libro è condotto quasi come un'inchiesta giornalistica che mira a documentare fatti reali e allo stesso tempo lascia aperti numerosi spiragli di dubbio circa la loro più intima e segreta natura.
Se però dovessi indicare qual è a mio parere la più interessante fra le opere di Seabrook (pur avendo letto pochi stralci di ognuna e nessuna per intero), direi che senz'altro si tratta di “Asylum”, la testimonianza eccezionale della quotidianità in un manicomio vista dal di dentro. Oggi siamo abituati ai libri verità e ai libri inchiesta, ma Seabrook fu in un certo senso un precursore di questa tendenza; va detto che, se all'epoca il trattamento sanitario mentale era in pratica la prassi per i casi più gravi di alcolismo, Seabrook fu coraggioso a richiederlo volontariamente: consapevole che l'abuso di alcol lo stava conducendo rapidamente alla tomba, nel dicembre del 1933 egli riuscì grazie ad alcuni amici a farsi ricoverare a Bloomingdale, un manicomio situato a Westchester County, vicino a New York, ove rimase fino al luglio 1934. Appena un anno più tardi, proprio mentre Seabrook scriveva e pubblicava il resoconto di quei lunghissimi mesi di internamento, “Asylum” appunto, con la nascita dell'associazione Alcolisti Anonimi (Alcoholics Anonymous o AA) gli Stati Uniti vissero una vera e propria rivoluzione dei metodi di lotta all'alcolismo. La fine del binomio alcolismo-manicomio non significa certo che da quel momento in poi i manicomi scomparvero dal suolo americano, perciò Seabrook documentò una realtà attuale allora e ancora adesso, se non nelle modalità dei trattamenti descritti certamente nella sua sostanza, e lo fece con la sua consueta minuziosità ed ironia, oltre che con lo stesso intimo stupore che avrebbe dimostrato nell'affrontare un viaggio, l'ennesimo, in una terra lontana e straniera. Nel libro Seabrook riesce anche con lucidità ed onestà a parlare delle paure che, a suo giudizio, lo avevano indotto all'alcolismo, anche se il suo medico curante mostrò di non condividere la sua tesi: I explained to the doctor I had dug as deep into myself as I could and that I was afraid my trade had been the cause of my drunkenness. I was afraid that what had driven me to drink was the fear that I could never write well enough for it to make any difference whether I wrote at all or not...
Sostituite “write well enough” con altre parole, quelle che vi pare, e potrete adattare quella frase a chiunque - persino a voi stessi, se del caso - ritrovando in quelle parole quell'universalità di fondo che (fra le altre cose) fa di questo libro un classico, purtroppo misconosciuto. Non credo affatto che questo abbia a che fare con le qualità della sua scrittura (se non eccelsa certamente valida, potente ed evocativa), anzi; ma tristemente Seabrook fu un acuto premonitore del proprio stesso destino, perché egli non è mai stato famoso come gli scrittori della Lost Generation, cui spesso viene accostato, né come altri scrittori “maledetti” più vicini a noi come Hunter Stockton Thompson (l'autore di “Paura e disgusto a Las Vegas”). Forse il pubblico e la morale non gli perdonarono i suoi eccessi, che certamente andavano più in là del “solito” uso ed abuso di alcol e droghe, o forse, più banalmente, il motivo è che, più che il sogno americano, egli inseguiva un sogno meno tangibile, più intimo e allo stesso tempo più universale della (apparente, benché tanto sbandierata) libertà americana. Quel che è certo è che William Buehler Seabrook fu un cittadino del mondo, e che prima che la sua esperienza terrena si concludesse per lui ci fu tempo per altri viaggi, tra cui uno in Africa (e di un altro matrimonio, ma questa è un'altra storia).
Seabrook morì il 20 settembre 1945 di overdose. Il suo suicidio fu l'ultimo, consapevole atto di una vita vissuta all'insegna del più totale anticonformismo o, al contrario, il suo arrendersi ai suoi demoni interiori, gli stessi che avevano guidato tutti i suoi gesti e le sue scelte? Qualunque sia la verità, che a questo punto mai conosceremo, ciò non toglie che egli osò vivere la vita che voleva in un'epoca in cui il mondo, per molti versi, era molto più pericoloso e sconosciuto di adesso. Se questo di per sé non è forse un gran merito, è però qualcosa per cui, io credo, vale la pena provare della sana invidia.
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