Pietro Gandolfi.
Tenete bene a mente questo nome, perché sono certo che sentiremo ancora parlare di lui. Poco più che trentenne, è approdato solo da poco nel territorio, infido e pericoloso come pochi, della cosiddetta narrativa di genere. Lo sappiamo, molti lettori di casa nostra hanno la poco simpatica tendenza a orientarsi più sulle produzioni straniere, che non sui talenti nostrani. E sì che ne sono, dai maestri riconosciuti quali Danilo Arona, Valerio Evangelisti o Gianfranco Manfredi, alle leve più giovani, quei nomi cioè che editori coraggiosi come Dunwich o Nero Press o nel recente passato la, ahinoi, defunta Edizioni XII, tentano o hanno tentato di far conoscere al pubblico.
A dispetto della scarsa attenzione quasi sempre mostrata dalla critica sonnacchiosa dei media ufficiali, c’è tutta una nuova leva di autori ben equipaggiati e soprattutto motivati a percorrere il duro cammino dell’editoria. Di certo hanno molte frecce al proprio arco e prima o poi le scoccheranno senza mancare il bersaglio, vedrete.
È tutta colpa della solita esterofilia, vizio antico del Bel Paese, non limitato peraltro al campo letterario, osserverà giustamente qualcuno, se i nostri autori non sempre ottengono il successo che pure meriterebbero.
È una verità innegabile, purtroppo. E tuttavia il romanzo che vi accingete a leggere riserva più d’una sorpresa proprio da questo punto di vista, nel senso che, pur essendo scritto da un autore innegabilmente italiano, di stanza in quel di Piacenza, potrebbe benissimo provenire dalla penna di un navigato autore d’oltreoceano. La storia, l’ambientazione, lo stile e i vari riferimenti sociali e culturali affondano saldamente le loro radici nella cultura popolare americana, dalla letteratura al cinema, senza dimenticare l’ambito musicale. Si direbbe quasi che Pietro abbia a tal punto assimilato la lezione dei grandi maestri di genere – un nome su tutti, l’immancabile Stephen King – per giungere a una sua personale rielaborazione stilistico-contenutistica.
William killed the radio star infatti, se da un lato mostra in maniera anche scoperta le sue matrici originarie, dall’altro si spinge ben oltre. Lo fa attraverso una scrittura visiva, molto cinematografica, che trae i suoi punti di forza nella fluidità espositiva e nella perfetta conoscenza dei meccanismi narrativi, acquisita dopo anni di scrittura assidua e ostinata. Gli echi delle letture del Nostro affiorano qua e là, certo, e così pure a tratti alcuni cliché, ma – è qui la novità – l’autore riesce a gestirli in maniera innovativa. Anzi, ho la netta sensazione che si diverta un mondo a piegarli alle sue malevole esigenze narrative.
Non credo di esagerare nel definire la storia narrata in questo avvincente romanzo un piccolo capolavoro horror, all’insegna della claustrofobia e dell’indagine psicologica.
Ambientata in una piccola cittadina immaginaria al confine con il Canada, Little Wood, narra la progressiva, metaforica (ma non troppo e non solo) discesa agli inferi del già tormentato protagonista, il DJ di colore Jazz. Siamo in pieno inverno, e il nucleo portante della storia si svolge durante una terribile notte di tormenta, che vede la tranquilla cittadina di provincia sferzata da una tempesta di neve che non lascia scampo né agli abitanti di Little Wood, né a Jazz, costretto ad attendere l’alba e i soccorsi al presunto riparo dell’edificio ospitante la stazione radio.
Ecco un primo esempio dell’operazione compiuta dall’autore: in una sorta di ribaltamento psicologico, la neve da elemento rassicurante col suo piacevole candore diviene al contrario un simbolo di totale negatività. La fitta nevicata notturna assurge al rango di simbolo per eccellenza di invalicabilità, d’invincibile oppressione.
Altro luogo comune rivisitato con sapida perfidia: il nostro protagonista, non a caso un uomo di colore proveniente da New Orleans, città ben nota a chi frequenta certi ambiti oscuri come lo scrivente e probabilmente buona parte degli amici lettori, si trova a condurre una battaglia paradossale e quasi senza speranza contro un nemico impossibile. Qui lo scrittore dispiega tutta la sua arte, nel giocare abilmente con il topos narrativo dell’aldilà, della ghost story più risaputa. E l’operazione, benché azzardata, a mio avviso è felicemente riuscita, grazie a un accurato incastro dei vari tasselli che compongono la narrazione.
Non manca neppure l’elemento melò, dal momento che Jazz, eroe in fondo negativo della nostra storia, viene a trovarsi addirittura al centro del classico triangolo amoroso. Di nuovo un cliché, diranno i lettori più smaliziati. E a ragione. Ma il narratore sfodera ancora i suoi artigli, risolvendo la possibile impasse in un modo che, credetemi, non ha proprio niente di convenzionale. Anzi potrebbe lasciare qualcuno con l’amaro in bocca. Ma forse è giusto sia così: l’autore non deve per forza compiacere il suo pubblico, alla ricerca del facile consenso. Diversamente, il suo probabile successo avverrebbe a scapito di un’inevitabile mercificazione della sua opera, prospettiva questa che credo ripugni a un autore come il nostro Pietro Gandolfi.
Last but not least, c’è la musica, ideale colonna sonora del testo. Il romanzo è denso di riferimenti e citazioni musicali, inserite ad hoc dall’autore in funzione quasi strumentale, mai per mero riempimento, a sottolineare e scandire la sequenza degli avvenimenti. La programmazione radiofonica del nostro DJ Jazz comprende brani che spaziano dal grande rock al miglior pop. D’altro canto non deve stupire tanta competenza nell’autore, visto che egli stesso è un rocker, nella sua qualità di vocalist della Epic Metal Band Bringer of War.
Non posso che concludere questa mia breve prefazione augurando buona lettura a tutti, invitandovi a mettere se possibile sul piatto del vostro giradischi un LP d’annata, meglio se di sano hard rock. Chissà che non vi aiuti a combattere la paura…
SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: William Killed the Radio Star
Autore: Pietro Gandolfi
Editore: Dunwich Edizioni
Collana: Morte a 666 Giri
Pagine: 204
Prezzo: 9,90€ (ebook 2,49€)