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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” II

Creato il 29 aprile 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO PRIMO

SCENA SECONDA

Sala del consiglio reale. Squilli di tromba. Entrano Claudio re di Danimarca, Gertrude la regina, consiglieri, Polonio e suo figlio Laerte, Valtemand, Cornelio, Amleto e altri.

RE: Benché sia ancora verde la memoria della morte del nostro caro fratello Amleto, e a noi s’addicesse osservare il compianto nei nostri cuori, e in tutto il nostro regno, ed essere contratti in un’unica fronte di afflizione, tuttavia così a lungo la discrezione ha combattuto con la natura, che noi pensiamo a lui con più saggio dolore, assieme alla memoria di noi stessi. Perciò la nostra sorella di un tempo, ora nostra regina, imperiale erede di questo stato bellicoso, abbiamo noi, diciamo, con atterrata gioia, con un occhio auspicale e lacrimante, con mirto al funerale e canto funebre alle nozze, in egual misura pesando delizia e duolo, presa per moglie. Né abbiamo qui ostacolato il voglio miglior senno, che in tutta libertà ha accompagnato questo affare – per tutto, la nostra gratitudine. Ora segue ciò che sapete: il giovane Fortebraccio, tenendo in scarsa stima il nostro valore, o ritenendo che per la recente morte del nostro caro fratello il nostro stato sia disunito e in disordine, collegato con questo il sogno di un suo profitto, non ha mancato di seccarci con un messaggio che implica la resa di quelle terre perse da suo padre, con tutti i crismi della legge, a vantaggio del nostro valorosissimo fratello. Ma non parliamo più di lui. Ora, quanto a noi, e al tempo di questo consesso, l’affare è quanto; noi abbiamo qui scritto al re di Norvegia, zio del giovane Fortebraccio, che, impotente e allettato, è venuto appena a sapere di questo proposito del nipote, di reprimere la sua marcia fin qui, dal momento che le leve, le liste, e i pieni reclutamenti sono fatti tra i suoi sudditi; e noi qui inviamo voi, buon Cornelio, e voi Valtemand, quali messi di questo omaggio al vecchio Norvegia; non dandovi il potere personale di negoziare con il re più di quanto permetta lo scopo di questi articoli pronunciati. Addio, e che il vostro zelo si raccomandi al vostro dovere.  

CORNELIO e VALTEMAND: In ciò e in tutto vi daremo prova del nostro rispetto.

RE: Non ne dubitiamo per nulla. Di cuore, addio.

(Escono Cornelio e Valtemand)

E adesso, Laerte, che nuove mi porti? Ci parlasti di una richiesta; quale, Laerte? Non puoi parlare con ragione al re danese e sprecare la tua voce. Cosa vorresti chiedere, Laerte, che non sia una mia offerta, non chiesta da te? La testa non è più congenita al cuore, la mano più strumentale alla bocca di quanto non sia il trono di Danimarca a tuo padre. Cosa vorresti avere, Laerte?

LAERTE: Mio venerato signore, il vostro permesso e favore per il mio ritorno in Francia, da cui, pur desiderandolo, venni in Danimarca per mostrare il mio ossequio alla vostra incoronazione, e anche adesso debbo confessare, reso tale ossequio, che i miei pensieri e desideri tendono di nuovo verso la Francia, e si inchinano per il vostro grazioso consenso.  

RE: Hai il consenso di tuo padre? Che dice Polonio?

POLONIO: Mio signore, mio figlio mi ha strappato un fievole consenso con laboriosa petizione, e alla fine sulla sua volontà ho apposto il sigillo del mio arduo permesso. Io vi prego, dategli il permesso di partire.

RE: Cogli la tua bella ora, Laerte, il tempo sia tuo, e le tue migliori risorse lo spendano a tuo piacere. Ma ora, Amleto, mio nipote e figlio…

AMLETO (A parte): Un po’ più nipote e meno che figlio…

RE: Com’è che sei ancora così rannuvolato?

AMLETO: Non così, mio signore; sono troppo assolato.

REGINA: Buon Amleto, scaccia via il tuo colore notturno, e che il tuo occhio guardi come un amico il re di Danimarca. Non cercare per sempre con le tue palpebre abbassate il tuo nobile padre nella polvere. Tu sai che è cosa comune, tutto ciò che vive deve morire passando all’eternità attraverso la natura.

AMLETO: Sì, signora, è cosa comune.

REGINA: Se lo è, perché a te sembra così particolare?

AMLETO: Sembra, signora? No, è. Io non conosco sembra. Non è soltanto il mio manto d’inchiostro, buona madre, né gli abiti rituali di solenne nero, né il ventoso sospirare di un infranto respiro, no, né il fecondo fiume nell’occhio, né l’abbattuto ostentare del viso, insieme con tutte le forme, gli umori, gli aspetti del dolore, che possano rivelarmi sinceramente. Queste, davvero, sembrano, perché sono azioni che un uomo potrebbe recitare; ma io ho in me ciò che supera lo spettacolo – questi non sono altro che gli ornamenti e i costumi del dolore.  

RE: È dolce e commendevole nella tua natura, Amleto, offrire questi omaggi di afflizione a tuo padre. Ma tu devi sapere che tuo padre ha perduto un padre; quel perduto padre ha perduto il suo; e il limite di chi sopravvive in filiale obbligo, per un termine stabilito, è di essere ossequioso con il proprio dolore. Ma perseverare in ostinato lutto è condotta di empia ostinazione, è doglianza non virile; e dimostra una volontà molto disdicevole verso il cielo, un cuore non fortificato, una mente impaziente, una comprensione rustica e incolta. Giacché ciò che sappiamo che deve essere, ed è comune come la cosa più volgare al senso, perché dovremmo con stizzosa opposizione prenderla a cuore? Orsù, è una colpa contro il cielo, una colpa contro i morti, una colpa contro la natura, del tutto assurda alla ragione, il cui tema comune è la morte dei padri, e che ha gridato ancora, dal primo cadavere fino a chi è morto oggi, “Deve essere così”. Ti preghiamo di gettare a terra questo vano dolore e di pensare a noi come un padre. Perché, che il mondo prenda nota, tu sei il più prossimo al nostro trono; e con nobiltà d’amore non minore di quello che il più caro padre porta a suo figlio io te lo rivelo. Circa il tuo intento di tornare a studiare a Wittenberg, esso è assai contrario al nostro desiderio; e ti scongiuriamo, piegati a rimanere qui nel conforto del nostro occhio, nostro primo suddito, nipote e nostro figlio.

REGINA: Non far sprecare le preghiere a tua madre, Amleto. Ti prego di rimanere con noi; non andare a Wittenberg.

AMLETO: Farò del mio meglio per ubbidirvi, signora.

RE: Questa è una risposta amorevole e bella. Sii come noi stesso in Danimarca. Signora, andiamo. Questo gentile e spontaneo assenso di Amleto sorride al mio cuore; in virtù di ciò oggi nessun brindisi di gioia del re di Danimarca solo il grande cannone lo annuncerà alle nuvole, e il banchetto del re lo propagherà il cielo riecheggiando il tuono terrestre. Andiamo.  

(Squilli di trombe. Escono tutti meno Amleto)

AMLETO: Oh se questa troppo troppo putrida carne potesse sciogliersi, o se l’eterno non avesse decretato il suo comandamento contro il suicidio. O Dio, Dio, come fiacchi, stantii, flaccidi e inutili mi sembrano tutti gli usi di questo mondo!

Che orrore, oh orrore, è un giardino pieno d’erbacce che va in seme, cose ripugnanti e volgari in natura lo possiedono tutto. Che si dovesse arrivare a questo –  morto soltanto da due mesi, no, non da tanto, non due – un re così eccelso, in confronto a questo un Iperione con un satiro, così amante di mia madre che non avrebbe concesso ai venti del cielo di visitare il suo volto troppo bruscamente. Cielo e terra, debbo io ricordare? Che si aggrappava stretta a lui come se il suo appetito crescesse mentre se ne cibava, eppure in un solo mese – non ci devo pensare – fragilità, il tuo nome è donna.

Un piccolo mese prima che si sciupassero quelle scarpe con cui seguì il corpo del mio povero padre, tutta in lacrime come Niobe, lei, lei stessa – O Dio, una bestia senza il dono della ragione avrebbe pianto più a lungo – sposata con mio zio, il fratello di mio padre, ma somigliante a mio padre come io a Ercole; in un solo mese – prima ancora che il sale di empie lacrime avesse lasciato arrossiti i suoi occhi stropicciati, lei si sposò. Oh fretta peccaminosa, correre con tanta destrezza a lenzuola incestuose!

No, non è bene, e non può portare alcun bene. Ma spezzati cuore, ché devo serrare la mia lingua.

Entrano Orazio, Marcello e Bernardo.

ORAZIO: Salute a vostra signoria!

AMLETO: Felice di vederti bene.

Orazio – o ho le traveggole?

ORAZIO: Giusto io, mio signore, e sempre il vostro umile servitore.

AMLETO: Mio buon amico, signore, con te scambierò quel nome. E che ci fai lontano da Wittenberg, Orazio? Marcello.

MARCELLO: Mio buon signore.

AMLETO: Molto felice di vederti. (A Bernardo) Buona sera, signore. Ma che cosa ci fai lontano da Wittenberg?

ORAZIO: Svogliatezza, mio buon signore.

AMLETO: Non vorrei sentire un tuo nemico dire questo, e non farai violenza al mio orecchio per dar fede alla tua voce contro te stesso. Io so che non sei uno svogliato.

Ma che affari hai in Elsinore? Ti insegneremo a bere forte prima che tu te ne vada.

ORAZIO: Mio signore, sono venuto a vedere i funerali di vostro padre.

AMLETO: Per favore, non sfottermi, compagno di studi; io credo che fosse per vedere le nozze di mia madre.

ORAZIO: Invero, mio signore, sono venute subito dopo.

AMLETO: Economia, economia, Orazio. Gli arrosti per i funerali sono stati serviti freddi sulle tavole nuziali. Avrei voluto incontrare in cielo il mio peggior nemico piuttosto che aver assistito a quel giorno, Orazio.

Mio padre – mi pare di vedere mio padre.

ORAZIO: Dove, mio signore?

AMLETO: Con gli occhi della mia mente, Orazio.

ORAZIO: Io l’ho veduto una volta, era un vero re.

AMLETO: Era un uomo, in tutto e per tutto, non ne vedrò l’eguale.

ORAZIO: Mio signore, credo di averlo visto ieri notte.

AMLETO: Visto? Chi?

ORAZIO: Mio signore, il re vostro padre.

AMLETO: Il re mio padre?

ORAZIO: Controllate il vostro stupore un momento, ascoltatemi con attenzione, fintanto che posso rivelarvi con la testimonianza di questi signori questo fenomeno.

AMLETO: Per l’amore di Dio, fammi sentire.

ORAZIO: Per due notti di fila questi signori, Marcello e Bernardo, mentre montavano la loro guardia, nella morta desolazione della mezzanotte, hanno avuto questo incontro. Una figura simile a vostro padre, armata di tutto punto, esattamente, da capo a piedi, appare davanti a loro, e con andatura solenne gli sfila accanto lenta e altera; tre volte è passata davanti ai loro occhi spauriti, alla distanza della sua mazza, mentre essi quasi agghiacciati dal terrore, rimangono muti e non gli parlano. Questo a me hanno confessato in gran segreto, e io la terza notte montai la guardia con loro, là dove, come mi avevano detto, alla stessa ora, la  forma della cosa, avveratasi ogni loro parola, l’apparizione arriva. Conoscevo vostro padre; queste mani non si assomigliano di più. 

AMLETO: Ma dov’è stato?

MARCELLO: Mio signore, sulla piazzola dove montiamo la guardia.

AMLETO: Non gli avete parlato?

ORAZIO: Io sì, mio signore, ma non ha risposto: anche se a un punto mi pare che abbia alzato la testa e accennato a muoversi come se volesse parlare; ma proprio allora il gallo mattutino cantò forte e a quel suono si ritrasse in fretta e svanì dalla nostra vista.

AMLETO: È molto strano.

ORAZIO: Com’è vero che io vivo, mio onorato signore, è la pura verità; e abbiamo pensato che fosse nostro dovere informarvi di ciò.

AMLETO: Certo, certo, signori, ma mi turba. Siete di guardia stanotte?

MARCELLO e BERNARDO: Sì, mio signore.

AMLETO: Armato, avete detto?

MARCELLO e BERNARDO: Armato, mio signore.

AMLETO: Dalla testa ai piedi?

MARCELLO e BERNARDO: Dalla testa ai piedi, mio signore.

AMLETO: Allora non l’avete visto in volto.

ORAZIO: Oh sì, mio signore, aveva la visiera alzata.

AMLETO: Sembrava corrucciato?

ORAZIO: Esprimeva più dolore che collera.

AMLETO: Pallido o arrossito?

ORAZIO: No, molto pallido.

AMLETO: E fissava gli occhi su di voi?

ORAZIO: Di continuo.

AMLETO: Avrei voluto esserci.

ORAZIO: Vi avrebbe sbigottito.

AMLETO: Molto probabile. S’è fermato a lungo?

ORAZIO: Il tempo di contare senza fretta fino a cento.

MARCELLO E BERNARDO: Di più, di più.

ORAZIO: Non quando l’ho visto io.

AMLETO: La sua barba era brizzolata, no?

ORAZIO: Era come gliel’ho vista quando viveva, un nero argentato.

AMLETO: Monterò di guardia stanotte,

forse si farà vivo ancora.

ORAZIO: Ne sono certo.

AMLETO: Se assume la figura del mio nobile padre gli parlerò, anche a costo che l’inferno si spalancasse e mi ordinasse di star zitto. Vi prego tutti, se fin qui avete nascosto questa visione, tenetela ancora nel vostro silenzio; e qualsiasi altra cosa accadrà stanotte, usate l’intelletto ma non la lingua. Vi sarò riconoscente per il vostro affetto. Così, addio. Sulla piazzola tra le undici e le dodici verrò a farvi visita.

TUTTI: Il nostro ossequio al vostro onore.

AMLETO: Il vostro affetto, come il mio a voi. Addio.

(Escono)

Lo spirito di mio padre – in armi – tutto non è bene. Temo qualche brutto tiro. Fosse già notte! Fino ad allora, acquietati, anima mia. I crimini risorgono, anche se tutta la terra li seppellisce, agli occhi degli uomini. (Esce)

SCENA TERZA

Entrano Laerte e Ofelia.

LAERTE: I miei bagagli sono a bordo. Addio. E, sorella, appena lo consentono i venti e il trasporto è possibile, non dormire, ma fammi avere tue notizie.

OFELIA: Ne dubiti?

LAERTE: Riguardo Amleto, e alla sciocchezza del suo favore, prendilo per una posa e un trastullo del sangue, una violetta nella giovinezza della primavera, precoce, non permanente, dolce, non perpetua, l’aroma e lo svago di un minuto, non di più.

OFELIA: Non più di questo?

LAERTE: Non lo immaginare di più. Perché la natura che sviluppa, non mette su solo muscoli e peso, ma come questo tempio cresce, il ruolo interiore della mente e dell’anima si cresce dentro. Forse ora lui ti ama, e ora né macchia né inganno insozza la virtù della sua volontà; ma tu devi aver timore, dato il peso della sua grandezza, la sua volontà non gli appartiene, perché è egli stesso soggetto alla sua nascita. Lui non può, come le persone senza importanza, fare da sé, perché dalla sua scelta dipendono la sicurezza e la salute di questo intero stato, e peraltro la sua scelta deve essere contenuta dentro la voce e le concessioni di quel corpo di cui è il capo. Allora, se lui dice che ti ama, s’addice alla tua saggezza crederci fintanto che nella sua particolare azione e posizione possa fare nei fatti ciò che dice, che non va oltre quello che gli è consentito in Danimarca. Quindi considera la perdita che il tuo onore può sopportare, se dai troppo credito alle sue canzoni, o cedi il tuo cuore, o apri il tuo casto tesoro alle sue molestie incontrollate. Temilo, Ofelia; temilo, mia cara sorella, e mantieniti nella retroguardia del tuo affetto, fuori dal tiro e dal pericolo del desiderio. La fanciulla più pudica è abbastanza prodiga se smaschera la sua bellezza davanti alla luna. La virtù stessa non schiva i colpi della diffamazione. L’ulcera corrode i germi della primavera troppo spesso prima che i loro boccioli si siano schiusi, e nel mattino e nella liquida rugiada della gioventù influenze contagiose sono molto imminenti. Sii prudente, dunque, la migliore sicurezza è la paura. La giovinezza si ribella a se stessa, anche se non c’è nessuno vicino. 

OFELIA: Farò tesoro di questa buona lezione come custode del mio cuore. Ma, mio buon fratello, non fare come certi pastori senza grazia, che mostrano l’erta spinosa del cielo, mentre, come un libertino superbo e dissoluto, calpestano il sentiero di primule del piacere e non seguono i loro stessi precetti.  

LAERTE: Oh non temere per me. Mi sono troppo dilungato – ma ecco che viene mio padre.

Entra Polonio

Una doppia benedizione è una doppia grazia; l’occasione mi regala un secondo commiato.

POLONIO: Ancora qui, Laerte? A bordo, a bordo, vergogna! Il vento è in poppa e tu sei in ritardo. Ecco – la mia benedizione sia con te. E guarda di conficcare questi pochi precetti nella tua memoria. Non dare voce ai tuoi pensieri, né azione a pensieri inadeguati. Sii confidenziale, ma mai volgare. Gli amici che hai e che sono provati, aggrappali alla tua anima con cerchi d’acciaio; ma non t’incallire la palma a intrattenere ogni spaccone implume e appena uscito dal guscio. Evita di entrare nelle risse, ma se ci sei, fa’ in modo che l’avversario si debba guardare da te. Presta a tutti il tuo ascolto, ma a pochi la tua parola; accogli il giudizio di ognuno, ma riservati il tuo. Il tuo abito costi quanto può comprare la tua borsa, ma non esprima stravaganza; ricco, non vistoso, perché spesso l’abito fa l’uomo; e in Francia quelli del miglior rango e grado sono molto esigenti e generosi, soprattutto in questo. Non chiedere soldi e non prestarli, perché spesso un prestito perde se stesso e l’amico, e il debito spunta il filo dell’economia. Questo principalmente, sii sincero con te stesso, e da ciò deve seguire, come la notte al giorno, che non potrai mai essere falso con nessuno. Addio, che la mia benedizione maturi questo in te.

LAERTE: Molto umilmente prendo congedo, mio signore.

POLONIO: L’ora ti invita; va’, i tuoi servi ti aspettano.

LAERTE: Addio Ofelia, e ricordati bene quello che ti ho detto.

OFELIA: È ben chiuso nella mia memoria e tu stesso ne terrai la chiave.

LAERTE: Addio. (Esce)

POLONIO: Che cos’è che ti ha detto, Ofelia?

OFELIA: Se non vi spiace, qualcosa che riguarda il principe Amleto.

POLONIO: Santa Vergine, ottima idea. Mi è stato detto che molto spesso ultimamente ti ha dedicato il suo tempo, e che tu sei stato molto disposta e generosa nel dargli udienza. Se è così, almeno come me l’hanno messa, e per avvisarti, io ti devo dire che non ti sai avvedere di te stessa  così chiaramente come s’addice a mia figlia e al tuo onore. Cosa c’è fra di voi? Dimmi tutta la verità.

OFELIA: Mi ha fatto ultimamente, mio signore, molte offerte del suo affetto per me.

POLONIO: Affetto? Mah! Parli come una ragazzina inesperta di simili pericolose circostanze. E tu credi alle sue offerte, come le chiami tu?

OFELIA: Io , mio signore, non so cosa pensarne.

POLONIO: Santa Vergine, te l’insegno io; pensa che sei una fanciulla, che ha preso queste offerte per oro colato. Venditi a un prezzo più alto; o – detto in soldoni – mi farai fare la parte dell’imbecille.

OFELIA: Mio signore, lui mi ha trattata con il suo amore in modo onorevole.

POLONIO: Sì, lo puoi chiamare modo; andiamo, andiamo.

OFELIA: E ha dato un contegno al suo dire, mio signore, con quasi tutti i santi giuramenti del cielo.

POLONIO: Sì, trappole per beccacce. Io lo so, quando il sangue ribolle, com’è larga l’anima a dare giuramenti con la lingua. Queste vampe, figlia, che danno più luce che calore, estinte in entrambi, proprio nell’istante preciso in cui la promessa è fatta, non le devi scambiare per fuoco. Da adesso sii parca con la tua presenza virginea. E i tuoi intrattenimenti mettili a un prezzo più alto di un comando a conferire. Circa il principe Amleto, giudica soprattutto in lui la sua giovinezza, e che può spostarsi in uno spazio più ampio di quanto sia concesso a te. Brevemente, Ofelia, non credere ai suoi giuramenti, perché sono dei mediatori, non della tinta che i loro vestimenti mostrano, ma  pure suppliche di abiti profani, dall’aria di vincoli consacrati e pii per incantare meglio. E questo è tutto: io non vorrei d’ora in avanti, a chiare lettere, che tu diffamassi neppure un istante del tuo tempo a ragionare  con il principe Amleto. Bada che te lo comando; vieni via.  

OFELIA: Obbedirò, mio signore.

Escono



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