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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” IV

Creato il 05 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Entrano Polonio e Rinaldo  

POLONIO: Dagli questi soldi e queste lettere, Rinaldo.

RINALDO: Sarà fatto, mio signore.

POLONIO: Farai cosa molto assennata, buon Rinaldo, se prima d’andarlo a trovare t’informassi sulla sua condotta. 

RINALDO: Mio signore, lo volevo fare.

POLONIO: Mio signore, ben detto, assai ben detto. Guarda, anzitutto scovami che danesi ci sono a Parigi, e chi, e come, e con che mezzi, e dove stanno, quale compagnia, e cosa spendono; e trovando, grazie a questo accerchiamento e direzione di domanda, che conoscono mio figlio, fatti più sotto a loro di quanto le domande particolari non tocchino. Atteggiati come se tu lo conoscessi alla lontana, per esempio così, “Conosco suo padre e i suoi amici, e in parte anche lui” – Hai fatto attenzione a questo, Rinaldo?

RINALDO: Sì, molto bene, mio signore.

POLONIO: “E in parte lui – ma, “tu puoi dire, “non bene: ma se è l’uomo che intendo io, è molto brado; incline a questo e a quello”; e qui addossagli le falsità che desideri, oddio, niente di così corrotto da fargli disonore, stai bene attento in questo; ma, le sfrenatezze, sregolatezze, le solite bravate che sono compagne note ed arcinote della gioventù e della libertà.

RINALDO: Come il gioco, mio signore?  

POLONIO: Sì, Appunto, o il bere, il duello, il bestemmiare, la rissa, il frequentare i bordelli – puoi arrivare fin qui.

RINALDO: Mio signore, ciò che lo infangherebbe.

POLONIO: No, in fede, se mi attenui un po’ l’accusa. Non devi addossargli un altro scandalo, riferito all’incontinenza; non è questo che intendo. Ma alita le sue colpe con tale arte da farle sembrare corruzioni della libertà, la saetta e lo scoppio di un carattere focoso, una selvatichezza di sangue indomito, di comune assalto.

RINALDO: Ma, mio buon signore -

POLONIO: Perché dovresti fare tutto questo?

RINALDO: Sì, mio signore, vorrei saperlo.

POLONIO: Santa Vergine, mio caro, ecco la mia intenzione, e la ritengo ben legittima. Gettando su mio figlio queste leggere macchie, come fosse una cosa un po’ sudicia dall’uso, sta’ attento, il tuo interlocutore, colui che tu vorresti sondare, se ha mai visto nelle succitate colpe il giovanotto che tu accusi,  sta  certo che con te si assocerà così; “buon signore,” o così, o “amico,” o “gentiluomo,” secondo la frase o l’etichetta dell’uomo e del paese.

RINALDO: Molto bene, mio signore.

POLONIO: E allora, mio caro, lui fa questo -  fa – cosa stavo per dire? Per la messa, stavo per dire qualcosa. A che punto ero?  

RINALDO: A “si assocerà così,” a “amico o così,” e, “gentiluomo.”

POLONIO: A “si assocerà così,” sì per Dio. Si assocerà così: “Conosco il gentiluomo, l’ho visto ieri, o l’altro giorno, o allora, o allora; col tale o col tal altro; e, come dite voi, là giocava d’azzardo, là era ubriaco fradicio, là faceva baruffa alla pallacorda,” o forse “l’ho visto entrare nella tal casa di scambio,” ossia un bordello, e via così. Vedi ora, la tua esca della menzogna prende questa carpa di verità. E così noi che abbiamo sale in zucca e vedute vaste, con argani e colpi a effetto per vie indirette scopriamo le direzioni; così, grazie alla mia lezione e al mio avviso tu scoprirai mio figlio. Hai ben capito, no?  

RINALDO: Ho capito, mio signore.

POLONIO: Allora vai con Dio, arrivederci.

RINALDO: Bene, mio signore.

POLONIO: Osserva le sue inclinazioni direttamente.

RINALDO: Lo farò, mio signore.

POLONIO: E lasciagli suonare la sua musica.

RINALDO: Bene, mio signore.

POLONIO: Addio.

(Esce Rinaldo)

Entra Ofelia

POLONIO: Ebbene, Ofelia, che è successo?

OFELIA: Oh mio signore, mio signore, ho preso una paura!

POLONIO: Per cosa, in nome di Dio?

OFELIA: Mio signore, mentre cucivo nella mia camera, il principe Amleto, con il farsetto tutto slacciato, senza cappello in testa, le calze sporche e senza giarrettiere, giù a ingombrargli le caviglie come ceppi, pallido come la sua camicia, le ginocchia  che battevano l’una con l’altra, e con un aspetto così pietoso a vedersi, come se fosse rilasciato dall’inferno  per parlare di orrori – viene davanti a me.

POLONIO: Pazzo d’amore per te?  

OFELIA: Mio signore, non lo so,  ma davvero ho paura di lui.

POLONIO: E che ti ha detto?  

OFELIA: Mi ha preso per un polso, e me lo ha stretto forte. Poi si allontana di un braccio e con l’altra mano così sulla fronte, cade in una tale esame del mio volto come se volesse ritrarlo. È stato a lungo così; alla fine, scuotendomi lievemente il braccio, e tre volte su e giù movendo la testa così, ha tirato un sospiro così pietoso e profondo che davvero sembrò schiantarlo tutto e farlo cessare di vivere; fatto questo, mi lascia andare, e con la testa voltata sulla spalla parve trovare la via senza gli occhi, perché varcò la porta senza il loro aiuto, e fino alla fine fissò la loro luce su me.

POLONIO: Su, vieni con me. Andrò a cercare il re. Questa è la vera estasi d’amore, la cui violenta indole distrugge se stessa, e spinge la volontà ad azioni disperate come spesso altre passioni sotto il cielo che affliggono le nostre nature. Mi dispiace. Ma di recente gli hai rivolto qualche parola dura?

OFELIA: No, mio buon signore, ma, come avete ordinato, io respinsi le sue lettere, e lo diffidai dal frequentarmi.

POLONIO: Questo lo ha reso pazzo. Mi dispiace di non averlo valutato con più attenzione e discernimento. Temevo che scherzasse solamente, e volesse rovinarti, ma accidenti alla mia gelosia. Per il cielo è proprio della nostra età basarci troppo sulle nostre opinioni, come è comune per i più giovani mancare di discrezione. Vieni, andiamo dal re. Questo dev’essere conosciuto, che, tenuto segreto potrebbe arrecare più dolore per averlo celato che odio per rivelare l’amore. Vieni.

(Escono)



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