William Shakespeare, “La Tragedia di Macbeth”

Creato il 18 settembre 2015 da Marvigar4

LA TRAGEDIA DI MACBETH

(1606)

di William Shakespeare

traduzione dall’originale in inglese The Tragedy of Macbeth

di Marco Vignolo Gargini

PERSONAGGI

DUNCAN, Re di Scozia

MACBETH, Sire di Glamis e Cawdor, e generale dell’esercito del Re

LADY MACBETH, sua moglie

MACDUFF, Sire di Fife, nobile di Scozia

LADY MACDUFF, sua moglie

MALCOLM, primogenito di Duncan

DONALBAIN, figlio giovane di Duncan

BANQUO, Sire di Lochaber, e generale dell’esercito del Re

FLEANCE, suo figlio

LENNOX, nobile di Scozia

ROSS, nobile di Scozia

MENTEITH, nobile di Scozia

ANGUS, nobile di Scozia

CAITHNESS, nobile di Scozia

SIWARD, Conte di Northumberland, generale dell’esercito d’Inghilterra

GIOVANE SIWARD, suo figlio

SEYTON, attendente di Macbeth

ECATE, Regina delle Streghe

Le tre Streghe

Ragazzo, figlio di Macduff

Dama di compagnia di Lady Macbeth

Un Medico inglese

Un Medico scozzese 

Un Capitano

Un Portiere

Un Vecchio

Il Fantasma di Banquo e altre Apparizioni

Nobili, gentiluomini, ufficiali, soldati, servi, attendenti, e messaggeri.

SCENA: Scozia e Inghilterra

ATTO I

SCENA I.

Un luogo deserto. Tuoni e lampi.

Entrano tre Streghe.

PRIMA STREGA. A quando riunirci noi tre nuovamente?

Tra tuoni, lampi, o nella pioggia battente? 

SECONDA STREGA. Quando la bolgia s’è estinta,

quando la lotta è persa e vinta.  

TERZA STREGA. Ciò sarà prima che cali la sera. 

PRIMA STREGA. Il posto dov’è? 

SECONDA STREGA. Sulla brughiera. 

TERZA STREGA. Là a vederci con Macbeth. 

PRIMA STREGA. Graymalkin, vengo.

SECONDA STREGA. Paddock chiama.

TERZA STREGA. Presto!

TUTTE. Bello è brutto, e brutto è bello.

Tra nebbie e fumi a volo d’uccello.   (Escono).

SCENA II.

Un campo presso Forres. Squilli di tromba dentro.

Entrano Duncan, Malcolm, Donalbain, Lennox, con attendenti, incontrano un sergente sporco di sangue. 

DUNCAN. Chi è quell’uomo insanguinato? Dal suo aspetto sembra che possa riferirci le ultime notizie della battaglia. 

MALCOLM. Questo è il sergente che da bravo e valoroso soldato combatté per contrastare la mia cattura. Salve, coraggioso amico! Di’ al Re ciò che sai della battaglia così come l’hai lasciata.

SERGENTE. Era ancora incerta, come due nuotatori esausti che s’avvinghiano a vicenda e soffocano la loro abilità. Lo spietato Macdonwald – degno d’essere un ribelle, infatti per questo su di lui brulicano le infamie moltiplicate della natura – dalle Isole d’Occidente viene rifornito di fanti e cavalieri; e la Fortuna, sorridendo alla sua dannata contesa, s’è esibita come puttana di un ribelle. Ma tutto ciò bastò a poco; poiché l’intrepido Macbeth – ed è ben degno di tal nome – disdegnando la Fortuna, con il suo ferro stretto in pugno, che fumava di sanguinosa strage, da favorito del Valore con fendenti ha aperto la sua strada fino ad affrontare il meschino, al quale non strinse la mano, né disse addio, prima di scucirlo dall’ombelico alle ganasce, e piantare la sua testa sui nostri spalti.  

DUNCAN. O valoroso cugino! Degno gentiluomo!

SERGENTE. Come dal punto in cui il sole sparge il suo riflesso scoppiano le tempeste che affondano le navi e rombano i terribili tuoni, così dalla fonte in cui sembrava giungere il conforto lo sconforto aumenta. Notate, Re di Scozia, notate. Non appena la giustizia, armata di valore, aveva obbligato questi guizzanti fanti a confidare nei propri talloni, di contro il sire di Norvegia, rilevando il vantaggio, con armi messe a nuovo e nuovi rinforzi di truppe, iniziò un nuovo assalto.

DUNCAN. E questo ha atterrito i nostri generali, Macbeth e Banquo?  

SERGENTE. Sì, come i passeri atterriscono le aquile, o la lepre il leone. A esser sincero, debbo riferire che loro erano come baliste sovraccariche di doppia carica, tanto aumentarono e gravarono i loro colpi sul nemico. Non so dire se intendessero bagnarsi nelle ferite fumanti, o rammentarsi un altro Golgota… Ma io sono sfiancato; le mie piaghe invocano aiuto.

DUNCAN. Le tue parole ti si confanno come le tue ferite; entrambe emanano onore. Su, portatelo da un medico.

Esce il Sergente, accompagnato.

Chi va là?

Entra Ross.

MALCOLM Il nobile signore di Ross.

LENNOX. Che sguardi ansiosi nei suoi occhi! È l’aspetto di chi sta per dire strane cose.

ROSS. Dio salvi il Re!

DUNCAN. Da dove vieni, nobile signore?

ROSS. Da Fife, gran Re, dove gli stendardi norvegesi si fanno beffe del cielo e investono con un gelido vento il nostro popolo. Lo stesso re di Norvegia, con schiere terribili, assistito dal più infame dei traditori, il sire di Cawdor, aveva avviato un orrendo conflitto, finché lo sposo di Bellona, corazzato per resistere a tutto, non l’ha affrontato a singolar tenzone, punta contro punta nemica, braccio contro braccio, piegando il suo prodigo ardore; e, per concludere, la vittoria è nostra.

DUNCAN. Grande felicità!

ROSS. E adesso Sweno, il re di Norvegia, chiede un concordato; ma non gli concedemmo la sepoltura dei suoi uomini finché non ebbe sborsato, a Saint Colme’s Inch, diecimila dollari a nostro comune profitto.

DUNCAN. Quel signore di Cawdor non tradirà più i nostri più intimi interessi. Che venga subito pronunciata la sua morte, e con il suo antico titolo si saluti Macbeth.

ROSS. Sarà fatto.

DUNCAN. Ciò che egli ha perduto, il nobile Macbeth lo ha guadagnato.

Escono.

SCENA III.

Una brughiera. Tuoni.

Entrano le tre Streghe.

PRIMA STREGA. Dove sei stata, sorella?

SECONDA STREGA. A scannare un maiale.

TERZA STREGA. E tu, sorella?

PRIMA STREGA. La sposa d’un marinaio nel grembiale castagne teneva, 

E rodeva, e rodeva, e rodeva. Dissi “Dammene”.  

Gridò la rognosa “Vattene!”.

Suo marito, mastro del Tigre, ad Aleppo se n’è andato;

Ma in un setaccio rotta farò per raggiunger quella proda,

E, come un sorcio senza coda,

Lo farò, lo farò, lo farò.

SECONDA STREGA. Ti darò un vento.

PRIMA STREGA. Gentile intento.

TERZA STREGA. E un altro lo darò io.

PRIMA STREGA. Tutti gli altri ce li ho io,

E soffian sui porti a profusione,

Tutti i quartieri che hanno in visione 

Sulla carta di navigazione. 

Lo farò secco come il fieno:

Né notte né giorno il sonno sereno

Sulle sue palpebre scenderà;

come un reietto lui vivrà.  

Nove volte nove, sette notti sfinito

Deperirà, languirà, vagherà smagrito; 

E se la sua nave non può andare perduta,

Dalla tempesta sarà pure sbattuta.

Guardate che ho.

SECONDA STREGA. Mostralo un po’?

PRIMA STREGA. Qui ho il pollice di chi pilotò

La nave al ritorno che naufragò.  

Rullo di tamburi dentro.

TERZA STREGA. Un tamburo, un tamburo!

È Macbeth che viene sicuro.

TUTTE. Le sorelle fatali, le mani in tondo,

Le corriere del terracqueo mondo,

Così girano, fan girotondo,

Tre a te, e tre a me,

E per far nove ancora tre.

Zitte! E l’incanto pronto è. 

Entrano Macbeth e Banquo.

MACBETH. Mai visto un giorno così brutto e così bello.

BANQUO. Quanto è lontano Forres da qui? Chi sono costoro così avvizzite e così selvagge nelle loro vesti, che non sembrano abitanti della terra, sebbene vi abitino? Voi vivete? O siete tutto ciò a cui uomo può porre domande? Sembrate capirmi, poiché tutte insieme avete messo sulle vostre labbra macilente il vostro dito rugoso. Dovreste essere donne, sebbene le vostre barbe mi impediscono di considerarvi tali. 

MACBETH. Parlate, se potete. Cosa siete?

PRIMA STREGA. Salve, Macbeth, salve a te, sire di Glamis!

SECONDA STREGA. Salve, Macbeth, salve a te, sire di Cawdor! 

TERZA STREGA. Salve, Macbeth, che sarai re un giorno!

BANQUO. Buon sire, perché sussulti, quasi a temere ciò che suona così bello? In nome del vero, siete immaginarie o siete davvero ciò che apparite? Il mio nobile compagno lo salutate con un titolo già suo e con grandi predizioni di nobili doni e di regale speranza, tanto da parere già avvinto a sé. A me non parlate. Se potete scrutare nei semi del tempo, e dire quale grano crescerà e quale no, parlate anche a me, che non imploro né temo i vostri favori né il vostro odio.

PRIMA STREGA. Salve!

SECONDA STREGA. Salve!

TERZA STREGA. Salve!

PRIMA STREGA. Inferiore a Macbeth, e più rilevante.

SECONDA STREGA. Non così esultante, ma molto più esultante.

TERZA STREGA. Tu darai al mondo dei re, ma tu non sarai re. Salve a voi due, Macbeth e Banquo!

PRIMA STREGA. Banquo e Macbeth, salve!

MACBETH. Ferme, imperfette oratrici, ditemi di più. Dopo la morte di Sinel so di essere il sire di Glamis; ma perché di Cawdor? Il sire di Cawdor vive ed è un nobile che prospera; e quanto a essere re è cosa che non sta nella fede dell’attesa, non più dell’essere sire di Cawdor. Ditemi da dove provengono, a chi dovete queste strane notizie, e perché su questa landa inaridita fermate il nostro cammino con tali profetici saluti? Parlate, v’imploro.

Le Streghe scompaiono.

BANQUO. La terra ha bolle come l’acqua, e costoro erano bolle. Dove sono svanite?

MACBETH. Nell’aria, e ciò che sembrava corporeo s’è sciolto come un soffio nel vento. Avrebbero dovuto restare!

BANQUO. Ma erano proprio qui le cose di cui parliamo? O abbiamo mangiato la radice insana che imprigiona la ragione?

MACBETH. I tuoi figli saranno re.

BANQUO. Tu sarai re.

MACBETH. E anche sire di Cawdor. Non hanno detto così?

BANQUO. Con lo stesso tono e le stesse parole. Chi viene?

Entrano Ross e Angus.

ROSS. Macbeth, il re ha accolto con giubilo le notizie del tuo successo; e quando egli sente il racconto della tua personale lotta contro il ribelle, i suoi stupori e le sue lodi si contendono ciò che spetterebbe a te o a lui. Da questo costretto al silenzio, continua a informarsi del resto della stessa giornata, e ti trova in mezzo alla forza delle schiere norvegesi, per niente pavido di ciò che tu stesso creasti, insolite immagini di morte. Fitti come grandine uno dopo l’altro venivano i messaggeri, e tutti recavano le tue lodi per la grande difesa del suo regno, e davanti a lui le riversavano.

ANGUS. Siamo stati inviati, dal nostro regale signore, per dirti grazie; solo per condurti in sua presenza, non per compensarti.

ROSS. E come pegno di un onore più grande, egli mi ordina, a nome suo, di nominarti  sire di Cawdor. Col cui titolo ti saluto, nobilissimo sire, perché esso è tuo.

BANQUO. Che cosa? Può il diavolo dire la verità?

MACBETH. Il sire di Cawdor vive. Perché mi vestite con abiti imprestati?

ANGUS. Colui che fu sire vive ancora, ma sotto un pesante giudizio sopporta quella vita che merita di perdere. Se si sia accordato con quelli di Norvegia, o abbia fiancheggiato i ribelli con aiuti e favori segreti, o con entrambi abbia operato per la rovina del suo paese, io non lo so; ma un alto tradimento, confessato e provato, lo ha perduto.

MACBETH. [A parte] Glamis, e sire di Cawdor! E il titolo più grande deve venire. [A Ross e Angus] Grazie per le vostre premure. [A parte a Banquo] Tu non speri che i tuoi figli siano re, quando quelle che mi fecero sire di Cawdor non promisero di meno a loro?

BANQUO. [A Macbeth] Questo, se lo credi fino in fondo, potrebbe infiammarti ad ambire alla corona, oltre alla signoria di Cawdor. Ma è strano; e spesso, per convincerci a far danno a noi stessi, gli strumenti delle tenebre ci dicono il vero, ci sconfiggono con oneste sciocchezze, per tradirci fino alle conseguenze estreme… Cugini, vi prego, una parola.

MACBETH. [A parte] Due verità sono state pronunciate, come felice prologo a un atto che aumenta d’intensità di un dramma sul tema della regalità … Vi ringrazio, signori. [A parte] Questa sollecitazione soprannaturale non può essere malefica, non può essere benefica. Se è malefica, perché mi ha donato un pronto successo, cominciando con una verità? Io sono sire di Cawdor. Se è benefica, perché cedo alla suggestione la cui orrida immagine mi fa rizzare i capelli e fa battere il mio saldo cuore contro le costole, contravvenendo alle leggi di natura? I terrori adesso sono minori rispetto all’orribile fantasticheria: il mio pensiero, in cui il delitto è ancora soltanto un’immaginazione, scuote a tal punto la mia sincera condizione di uomo da esser soffocato da una supposizione, e niente è se non ciò che non è. 

BANQUO. Guardate, il nostro compagno è assorto.

MACBETH. [A parte] Se la sorte mi vuole re, allora, la sorte mi può incoronare senza ch’io muova un passo

BANQUO. I nuovi onori calzano su di lui come i nostri strani paramenti, s’attaccano non con la loro foggia ma con l’aiuto dell’uso.

MACBETH. [A parte] Accada ciò che può accadere, il tempo e l’ora corrono nel giorno più aspro.

BANQUO. Nobile Macbeth, attendiamo il tuo agio.

MACBETH. Accordatemi il vostro favore; il mio stanco cervello era agitato da cose dimenticate. Cortesi signori, le vostre cure sono trascritte là dove ogni girono volgerò le pagine per leggerle. Andiamo incontro al re. [A Banquo] Rifletti su ciò che è accaduto, e più avanti, avendolo intanto ponderato, che i nostri cuori si parlino apertamente. 

BANQUO. Molto volentieri.

MACBETH. Fino ad allora, niente più. Venite, amici.  

Escono.

SCENA IV.

Forres. Palazzo. Squilli di tromba. Entra Duncan, Malcolm, Donalbain, Lennox, e il seguito.

DUNCAN. È avvenuta l’esecuzione di Cawdor? Non sono ancora tornati quelli che avevano l’incarico?

MALCOLM. Mio signore, non hanno fatto ancora ritorno. Ma io ho parlato con uno che lo vide morire, il quale ha riferito che egli con molta franchezza ha confessato il suo tradimento, ha implorato il perdono di Sua Altezza, e manifestato una profonda resipiscenza. Niente nella sua vita gli fu confacente come il lasciarla; egli è morto come uno che si fosse studiato nella sua morte di gettar via ciò che aveva di più caro quasi fosse un’inezia senza senso. 

DUNCAN. Non c’è arte per scovare nel volto l’opera della mente: egli era un gentiluomo su cui io riposi un assoluta fiducia. 

Entrano Macbeth, Banquo, Ross, e Angus.

O nobilissimo cugino! Il peccato della mia ingratitudine finora ha gravato su me. Tu sei talmente avanzato, che l’ala più rapida della ricompensa è lenta a raggiungere te. Vorrei che tu avessi meritato di meno, e che la proporzione tra la gratitudine e la ricompensa fosse stata a me adeguata! Mi rimane soltanto una cosa da dire, che ti è dovuto di più di quanto tutto ti possa retribuire. 

MACBETH. Il servizio e la lealtà che vi debbo, nella mia azione, si pagano da sole. Spetta a Vostra Altezza ricevere i nostri doveri, e i nostri doveri sono figli e servi del vostro trono e della vostra maestà, i quali fanno solo ciò che debbono fare, facendo tutto quel che serve al vostro amore e al vostro onore.

DUNCAN. Che tu sia qui il benvenuto. Ho iniziato a coltivarti, e mi darò pena di farti crescere rigoglioso. Nobile Banquo, che non hai meritato di meno, e che non meno noto deve essere quello che hai fatto; fa che ti abbracci e ti stringa al mio cuore.

BANQUO. E se sono coltivato, tutto vostro è il raccolto.

DUNCAN. Le mie copiose gioie, lussureggianti per pienezza, cercano di nascondersi in lacrime di dolore. Figli, congiunti, signori, e voi che mi siete più vicini, sappiate che noi vogliamo designare come nostro successore il nostro primogenito, Malcolm, che sin d’ora nominiamo Principe di Cumberland; questo onore non deve investire lui soltanto, senza compagni, ma i segni della nobiltà, come stelle, splenderanno su tutti i meritevoli. [A Macbeth] Rechiamoci a Inverness, dove a te io mi legherò di più.  

MACBETH. Il riposo che a voi non è dedicato è una fatica. Sarò io stesso l’araldo, e renderò felice mia moglie con l’annuncio della vostra venuta; umilmente, così, mi congedo.

DUNCAN. Mio nobile Cawdor!

MACBETH. [A parte] Prince di Cumberland! Questo è un gradino su cui debbo cadere o che debbo saltare, dal momento che è sulla mia strada. Stelle, celate i vostri fuochi; che la luce non veda i miei neri e profondi desideri. L’occhio ammicchi alla mano; e tuttavia si compia ciò che l’occhio teme di vedere, quand’è fatto.  

Esce.

DUNCAN. Davvero, nobile Banquo! Egli è così valoroso, e per me è un nutrimento fare le sue lodi; è per me un banchetto. Seguiamo colui la cui cura ci ha preceduto per darci il benvenuto. È un congiunto senza pari.  

Squilli di trombe. Escono.

SCENA V.

Inverness. Il castello di Macbeth. Entra Lady Macbeth, leggendo una lettera.

LADY MACBETH. “Nel giorno della vittoria mi incontrarono, e ho appreso dal più completo degli annunci che esse hanno in sé una conoscenza più che mortale. Quando io ardevo dal desiderio di chiedere a loro ulteriori notizie, tramutarono se stesse in aria, nella quale esse sono svanite. Mentre io ero rapito dallo sbigottimento, giunsero messaggeri dal re, i quali tutti insieme mi salutarono ‘Sire di Cawdor’; con il cui titolo, in precedenza, queste fatali sorelle mi salutarono e mi riferirono del tempo a venire con ‘Salve, tu che sarai re un giorno!’. Ho pensato bene di comunicarti questo, mia carissima compagna di grandezza, affinché tu non perdessi i diritti della gioia, ignorando quale grandezza ti sia promessa. Serba questo nel cuore, e addio.

Sei Glamis, e Cawdor, e sarai ciò che ti è stato promesso. Eppure io temo la tua natura. È troppo ricolma del latte dell’umana gentilezza per prendere la via più breve. Tu vorresti esser grande; non sei privo di ambizione, ma vorresti raggiunger la meta senza dolo. Ciò che altamente desideri, lo vorresti santamente; non vorresti far falso gioco, ma tuttavia vorresti vincere barando. Tu vorresti, grande Glamis, ciò che grida, “Così tu devi fare, se vuoi averlo”; e vorresti ciò che temi maggiormente di fare più di ciò che non desideri che non sia fatto. Vieni presto, che io possa versare il mio coraggio nelle tue orecchie, e correggere con il valore della mia lingua tutto ciò che ti tiene lontano dall’aureo cerchio, con cui il fato e l’aiuto metafisico sembrano averti già incoronato.

Entra un messaggero

Quali notizie?

MESSAGGERO. Il re giunge qui stasera.

LADY MACBETH. Sei pazzo a dirlo! Non c’è il tuo padrone con lui? Se fosse così, mi avrebbe informata per i preparativi.

MESSAGGERO. Con vostra licenza, è vero; il nostro signore sta giungendo. Uno dei miei compagni lo precede, ed era con il fiato quasi mozzato, che a malapena ne aveva per comunicare il messaggio.

LADY MACBETH. Abbi cura di lui; porta con sé grandi notizie.  

Esce il messaggero

È rauco lo stesso corvo che annuncia gracchiando l’ingresso fatale di Duncan sotto i miei bastioni. Venite, voi spiriti tesi ai pensieri di morte, toglietemi il sesso e riempitemi tutta dalla testa ai piedi della crudeltà più terribile! Addensate il mio sangue, sbarrate l’accesso e il passaggio al rimorso, che il pellegrinaggio di una natura pentita non scuota il mio proposito truce né mantenga l’armonia tra l’effetto ed esso! Venite ai miei seni di donna, e mutate il mio latte in fiele, voi ministri dell’assassinio, ovunque voi siate nelle vostre essenze invisibili al servizio di un’indole maliziosa! Vieni, densa notte, e saziati nel fumo più grigio dell’inferno perché il mio affilato pugnale non veda le ferite che apre né il cielo sbirci tra le cortine delle tenebre per gridare, “Ferma, ferma!”.

Entra Macbeth

Grande Glamis! Nobile Cawdor! E di entrambi più grande, per il saluto che verrà in futuro! Le tue lettere mi hanno trasportato oltre questo presente ignaro, e io sento adesso il futuro immediato.

MACBETH. Mio amore carissimo, Duncan viene qui stasera.

LADY MACBETH. E quando parte da qui?

MACBETH. Domani, a quanto ha deciso.

LADY MACBETH. Oh, mai il sole vedrà quel domani! Il tuo volto, mio sire, è come un libro dove gli uomini possono leggervi strani argomenti. Per ingannare il tempo, assumi la sembianza del tempo; porta il tuo benvenuto negli occhi, nella mano, nella lingua; prendi l’aspetto del fiore innocente, ma sii il serpente che vi cova sotto. A colui che sta per giungere occorre provvedere; e affida alla mia prontezza la grande opera di questa notte, che per tutte le notti e i giorni a venire sola ci darà il potere sovrano e il dominio.

MACBETH. Ne parleremo più tardi.

LADY MACBETH. Mostra soltanto un’aria serena; un aspetto alterato è sempre da temere. Tutto il resto lascialo a me.  

Escono

SCENA VI.

Davanti al castello di Macbeth. suoni di oboe e torce. Entrano Duncan, Malcolm, Donalbain, Banquo, Lennox, Macduff, Ross, Angus, e seguito.

DUNCAN. Questo castello è posto in un luogo incantevole; l’aria si affida agile e dolce ai nostri sensi gentili. 

BANQUO. Quest’ospite dell’estate, il rondone che abita i templi, conferma con i suoi amati nidi che la brezza del cielo qui ha un profumo suadente. Non v’è cornicione, fregio, sostegno, o posizione vantaggiosa, in cui questo uccello non abbia costruito il suo pendulo giaciglio e la sua prolifica culla; ho osservato che dove il rondone gradisce nidificare l’aria è delicata.

Entra Lady Macbeth

DUNCAN. Ecco, ecco, la nostra ospite onorata! L’amore che ci insegue talvolta è per noi un fastidio, seppure noi, in quanto amore, lo ringraziamo. Con questo vi insegno a pregare Dio di ricompensarci per le vostre pene, e ringraziarci per il vostro fastidio.

LADY MACBETH. Tutti i nostri servigi, in ogni punto ripetuti due volte, e poi ancora due volte ripetuti, sarebbero poca e semplice cosa rispetto a questi profondi e ampi onori con cui Vostra Maestà ricolma la nostra dimora. Per gli antichi onori e per le recenti dignità aggiunte a quelli, noi restiamo i vostri eremiti in preghiera.

DUNCAN. Dov’è il sire di Cawdor? Gli siamo stati alle calcagna e avevamo intenzione di sopravanzarlo; ma egli cavalca bene, e il suo grande amore, acuto come il suo sperone, lo ha portato a casa sua prima di noi. Bella e nobile padrona di casa, stanotte noi siamo vostri ospiti.

LADY MACBETH. I vostri servi considerano la propria servitù, se stessi, e ciò che gli appartiene, per rendere il loro conto al piacere della vostra Altezza, pronti a restituire ciò che è vostro.

DUNCAN. Datemi la vostra mano; conducetemi dal mio ospite. Noi lo amiamo molto, e continueremo a tributargli i nostri favori. Con il vostro permesso, signora.  

Escono

SCENA VII

Il castello di Macbeth. suoni di oboe e torce. Entrano e passano sulla scena un valletto e diversi servitori con portate e piatti. Poi entra Macbeth.

MACBETH. Se fosse compiuto quando è compiuto, allora sarebbe meglio compierlo subito. Se l’assassinio potesse irretire le conseguenze, e cogliere il successo con la sua interruzione, così che questo colpo potesse essere tutto e la fine di tutto… qui, ma qui, su questa riva e questa secca del tempo, potrei fare un balzo verso la vita futura. Però in questi casi noi qui possediamo ancora un giudizio, perché noi non diamo che istruzioni sanguinarie, le quali, apprese, tornano a piagare chi le ha date. Questa giustizia imparziale raccomanda alle nostre stesse labbra gli ingredienti del nostro calice avvelenato. Egli è qui con duplice fiducia: dapprima, poiché io sono suo congiunto e suo suddito, entrambe forti ragioni contro il misfatto; poi, in quanto suo ospite, io dovrei sbarrare la porta al suo assassino, e non impugnare io stesso il pugnale. Inoltre, questo Duncan ha esercitato così dolcemente i suoi poteri, è stato così trasparente nel suo alto ufficio, che le sue virtù invocherebbero la dannazione infinita per la sua soppressione come angeli dalle trombe squillanti, e la pietà, come un nudo neonato a cavalcioni sulle raffiche del vento, o come un cherubino celeste in sella sui corrieri invisibili dell’aria, soffierà in ogni occhio l’orribile misfatto, tanto da soffocare il vento. Io non ho sproni per pungere i fianchi del mio intento, ma soltanto un’ambizione sfrenata, che salta oltre e cade dall’altro…

Entra Lady Macbeth.

Allora, quali novità?

LADY MACBETH. Ha quasi finito di cenare. Perché hai abbandonato la stanza?

MACBETH. Lui ha chiesto di me?

LADY MACBETH. E non lo sai? 

MACBETH. Non andremo avanti in questo affare: egli mi ha appena colmato di onori, e io presso tutte le persone, tutte, mi sono fatto una reputazione dorata di cui dovrei rivestirmi adesso nel suo più nuovo splendore, e non gettarla subito da parte.

LADY MACBETH. Era ubriaca la speranza con cui ti sei ammantato? Ha dormito da allora? E si sveglia adesso, per scrutare così livida e pallida ciò che voleva fare così liberamente? Da questo momento il tuo amore lo stimo alla stessa stregua. Tu temi d’essere lo stesso nella tua azione e nel valore come lo sei nel desiderio? Vorresti avere ciò che consideri l’ornamento della vita e vivere da codardo nella tua stessa stima, lasciando che “Io non oso” sia al servizio di “Io vorrei”, come il povero gatto dell’adagio?

MACBETH. Ti prego, taci! Io oso fare tutto ciò che si addice a un uomo; chi osa far di più non lo è.

LADY MACBETH. Allora che bestia era quella che ti indusse a comunicarmi questa impresa? Quando osasti farlo, allora eri un uomo, e, se tu lo fossi più di quanto lo eri, saresti ancora di più un uomo. Né il tempo né il luogo ti erano favorevoli, eppure entrambi volevi crearli. Si creano da soli, e la loro convenienza ora ti distrugge. Ho dato il latte da succhiare e so quanto è dolce amare il bambino che si attacca al mio seno… E, mentre al mio volto mi stava sorridendo, gli avrei strappato il capezzolo dalle sue gengive sdentate e fracassato il cranio se lo avessi giurato come tu hai fatto.  

MACBETH. E se fallissimo?

LADY MACBETH. Fallire? Inchioda il tuo coraggio sul terreno solido e non falliremo. Quando Duncan ha preso sonno… e a quello lo inviterà certamente la fatica di un giorno di viaggio… persuaderò a tal punto i suoi due ciambellani con il vino e le gozzoviglie che la memoria, guardiana del cervello, sarà un fumo e la sede della ragione sarà solo un lambicco. E quando le loro energie ebbre languiranno in un sonno bestiale come in una morte, cosa non possiamo compiere tu e io su Duncan indifeso? Cosa non possiamo attribuire alle spugne dei suoi ufficiali, che prenderanno la colpa della nostra grande rivolta?

MACBETH. Partorisci solo figli maschi, perché la tua tempra indomita non potrebbe concepire altro che maschi. Quando avremo imbrattato di sangue quei due dormiglioni nella sua stessa camera e usato i loro stessi pugnali, sarà ammesso come vero che loro lo hanno fatto?

LADY MACBETH. Chi osa ammetterlo altrimenti, quando noi faremo ruggire alte grida e clamori sulla sua morte?

MACBETH. Io sono pronto e tendo ogni facoltà corporea verso questo terribile atto. Avanti,  e inganniamo il tempo con la più serena apparenza: un volto falso deve nascondere ciò che un cuore falso sa.

Escono.


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