Coincidenza simpatica che nello stesso anno e a poca distanza l’uno dall’altro escano due film sul Bigfoot, e cosa ancora più stramba è il loro essere entrambi mockumentary: il primo, Exists, è un tremendo passo falso del guru del found footage Eduardo Sanchez e uno dei peggior film del 2014, l’altro, questo Willow Creek, è un’esperienza estremamente povera e non poco derivativa, ma contiene una motrice di paura e inquietudine che ormai si respira davvero, davvero poco in un sottogenere che si sta rapidamente accartocciando su se stesso. Stracciando il film di Sanchez mi sono soffermato molto su ciò che il mockumentary dovrebbe cercare di essere adesso, e mentre chiunque sfrutta il genere trovando nella sua economia un trampolino per arrivare al dvd o magari addirittura al cinema saltando le tappe, questi autori che si credono furbi per nascondere mancanze tecniche e narrative dietro camere traballanti e spaventi meccanici di poco conto, Bobcat Goldthwait, che viene dal mondo della comicità e ha già fatto un’opera grottesca come God Bless America, crea un film estremamente essenziale, solo due attori e una manciata di comparse, nessun trucco, nessun effetto speciale, nessuna correzione in post produzione, anzi, c’è una ricerca realista molto valida e rigorosa che si può notare nei lunghi momenti ironici dove i vari redneck vengono intervistati e cantano le loro ballate country sul Bigfoot. Goldthwait spende molti minuti a narrare una storia possibile, semplice, diretta e senza fronzoli, anche blanda e con un’unica strada in salita, fatta di due fidanzati e del loro peregrinare tra i boschi di Willow Creek nella speranza di poter incontrare e filmare il gigantesco sasquatch come accadde in quel famoso videotape del ‘67.
È una scelta giustissima e che appoggio in pieno, non incontrerà il favore del pubblico, che distrugge parecchio il suo lavoro, ma è l’unica per dare una personalità a un film che in realtà ne avrebbe pochissima. Al di là di un argomento che ho sempre trovato poco, poco interessante, sul quale temo sia difficile edificare ansia e atmosfera orrorifica, Goldthwait prende eccessivamente ad esempio il fondamentale The Blair Witch Project, ricalcandone, oltre alle ovvie ambientazioni boschive, il progressivo smarrimento dei due protagonisti, esperienza sulla quale Willow Creek trova grossolana stimolazione.Non è da sottovalutare nemmeno la presenza di una storia fin troppo lineare e asciutta, con un background nullo, due personaggi non troppo simpatici, e dialoghi sì schietti e validi ma che comunque non superano la media del genere per riflessioni e tematiche trattate: in generale viene quindi a mancare una sorta di sostanza che l’atmosfera solare, l’ironia e i faccioni rubicondi degli abitanti del luogo non possono e non riescono a colorare adeguatamente.Spiego meglio: a differenza di quanto succede in Honeymoon, per certi versi molto simile in alcuni intenti narrativi, Goldthwait non è in grado di costruire due protagonisti che sappiano reggere ottanta minuti, il loro amore è ahimè distaccato e superficiale come vuole il manuale dello sceneggiatore, stesso discorso per due personalità semplici che faticano a colpire e a diventare amiche dello spettatore. Partire in seconda e far balzare l’auto è cosa rischiosa, potrebbe morire e riavviare tutto può tramutarsi in un guaio, ma è anche vero che Goldthwait sa riprendersi e, tra la stramberia della fauna locale e una maggior incisione del rapporto tra Jim e Kelly (progetti per il futuro, una scena in particolare molto imbarazzante), riesce a imprimere quel necessario realismo situazionistico (penso, non so, alla scena del bagno nel fiume, dura pochi secondi ma cattura quella verità che i mockumentary cercano sempre di filmare ma raramente trovano). L’avventura della coppia diventa più sincera, il susseguirsi di simpatiche stranezze strappa un bel sorriso e poi di colpo arriva la botta finale.