WINE ON THE ROAD: "Il re Vino e il mazzo di ginestre" di Laura Peruzzi

Da Silviamaestrelli
Laura Peruzzi, di Forlimpopoli (Forlì-Cesena), è laureata in Giurisprudenza a Bologna. E’ Avvocato ad modum actus presso il Tribunale Ecclesiastico. Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, ha scritto il racconto “Il re Vino e il mazzo di ginestre”. Racconto “Il re Vino e il mazzo di ginestre” di Laura Peruzzi.Avevo vinto un concorso per l’insegnamento alle scuole elementari a Pieve a Ripoli, un paesino in collina, nel cuore delle terre del Rinascimento della provincia fiorentina e tutte le mattine percorrevo la Firenze-Livorno. Ero maestra di una classe di bambini, forse più tranquilli di quelli di città, in collina infatti sopravvivevano le vecchie tradizioni e l’insegnante aveva ancora il suo ruolo. Anche quella mattina ero scesa ad Empoli, dove attendevo una collega che mi dava un passaggio. In macchina transitavo su terreni mediamente argillosi, profondi e fertili, proseguivo per le dolci colline tra Montalbano che portava ancora vive le sue radici etrusche e l’Arno, e da Cerreto Guidi la città del vino, che deve il suo nome ai conti Guidi, antichi signori feudali. Nelle verdi colline, coltivate a vite ed ulivi, si proseguiva poi, sino a Pieve Ripoli. D’inverno quel tratto di strada carraia di collina era piuttosto impervio, ma non appena sbocciava la primavera il paesaggio mutava e rapiva lo sguardo e l’immaginazione. Specialmente nei mesi rigidi dell’inverno mi dicevo: “sono fortunata, se avessi insegnato dopo la grande guerra, sarei andata a piedi, o magari sulla groppa di un asino, così come era accaduto alle maestre di quel tempo!” Le ginestre erano il mio fiore preferito e spesso qualche alunno, mi faceva trovare in classe un bel mazzo di fiori gialli, ed era una festa! In quella “campagna-giardino” caratterizzata dalle coltivazioni della vite in pianura, dell'olivo sui pendii più alti e dai boschi di castagni sulle sommità, un giorno ho portato la mia classe a Villa medicea di Cerreto Guidi. Al primo piano visitammo il museo storico della caccia e del territorio e poi siamo andati al museo della vite e dei vino di Roccastrada, ricavato da un'antica cantina scavata nella roccia, che racconta la storia del territorio, la vita dei campi e l'estrazione dei minerali. Quella villa situata in un territorio particolarmente ricco dal punto di vista faunistico, mi faceva andare con la mente al lontano 1500 durante la signoria dei Medici. E così dalla splendida terrazza panoramica, vedevo una ragazza dal lungo abito color porpora nell’anello di strada che cinge il colle del complesso mediceo, orientarsi all’Oratorio della Santissima Trinità, ove l’attendeva un frate francescano. “Padre Giustino, mi sono innamorata di un giovane. Non è del mio censo. Come potrò mai dirlo ai miei genitori?” “Le vie del Signore sono infinite. Fai un voto a Santa Liberata e vedrai che saprà consigliarti”, rispose padre Giustino e così congedò la ragazza, invitandola a rientrare a palazzo, per non fare stare in pena i di lei cari. Era la prima settimana di settembre e cadeva la solenne festività di Santa Liberata e la giovane, fece il suo voto nel mentre percorreva il tragitto di strada tra l’Oratorio e Villa Medici: “Non berrò vino sino al mio matrimonio”. Letizia era figlia di un ricco feudatario del posto e si era innamorata di Nando, un contadino, operaio nelle sue terre. Come avrebbe potuto raccontarlo alla propria famiglia, lei già promessa al figlio di un ricco feudatario del paese di Vinci? Nando era povero, ma era un artista nell’arte di far vino. Questi aveva il dono di selezionare le uve migliori, le sapeva sceglierle al giusto grado di maturazione, ne seguiva accuratamente la vinificazione, lo correggeva durante la fermentazione, e poi lo custodiva in una particolare cantina ove la temperatura era pressoché stabile. Il risultato finito era ottimale! Un giorno con un cesto dei suoi vini andò a palazzo per chiedere la mano di Letizia. Il feudatario impensierito del fatto che sua figlia non bevesse più vino, disse: “se riuscirai a fare bere del tuo vino mia figlia, l’avrai in moglie!” Letizia bevve e lo fece con gioia e quel vino divenne realmente rosso d’amore. Quell’amore che sboccia alla sua apertura, che riscalda gli animi e rinvigorisce il tempo. Il contadino divenne genero del feudatario e il feudatario diventò il Re del vino. Mentre seduta percorrevo la bella Toscana, il ricordo viaggiava a un altro giorno. Sul treno quella mattina c’era più trambusto del solito. Un signore dalla voce impetuosa s’era messo a parlare di politica, della crisi finanziaria ed esclamava: “torneremo tutti a zappare la terra!” Mi limitavo ad ascoltare e pensavo: “non è vile zappare la terra!” Indispettita da tali discorsi che stonavano tra i verdi paesaggi toscani, il ricordo andava alle mie origini contadine e ai primi del ‘900. A settembre ricominciava la scuola, era stagione di vendemmia e in quella zona era un brulichio di canti e voci. La gente del paese, come fosse tutta della stessa famiglia, insieme si aiutava, chiacchierava e cantava, mentre era intenta a lavorare la terra. L’uva paglierina specchiava il sole nei suoi grappoli d’oro, mentre l’uva nera, d’aromi riempiva l’aria e il palato, ove esplodeva in una pioggia cioccolatosa di dissetante sapore. I grappoli ricchi d’abbondanza colavano di zuccherina densità e anche le mani e le braccia arricchite, appiccicavano e nutrivano la pelle golosa. Si evitava di vendemmiare uva bagnata dalla nebbia, dalla rugiada o dalla pioggia e si iniziava la vendemmia non di primo mattino ma si attendeva che il sole asciugasse l'umidità dei grappoli. Le madri portavano i figli con loro e lì, questi apprendevano l’arte della raccolta. Non andavano fatti cadere acini e occorreva tagliare il grappolo il più possibile vicino alla pigna. Andavano poi eliminata dall'uva, con le mani o con le forbici, gli acini guasti, ammuffiti o secchi e tutte le foglie. L'uva veniva raccolta in contenitori che non la danneggiavano, al fine di evitare una anomala fermentazione e poi veniva portata rapidamente nei locali di pigiatura da un carro che passava tra i campi, come giostra paronimica dei bambini, che caricati a fianco delle cassette di legno, erano come una fiorita d’allegria, tra tanti frutti della terra. Le campane della vicina chiesa dell’Oratorio della Santissima Trinità, scandivano le ore e le donne s’affrettavano nel portare avanti la raccolta, oltre che di preparare il pranzo. Così allestivano enormi tavolate all’ombra del sole, tra piatti decorati con i frutti sani della sua campagna. Ogni prelibatezza proveniva dalla terra e si mangiava e beveva, senza nulla sprecare, per non portare offesa a Dio e all’uomo stesso, in rispetto a quel giorno che non avesse avuto da mangiare. Nelle grandi tavolate si era tutti signori, allegri e spensierati, con la fede in Dio, il rispetto per la famiglia e il gusto dell’amicizia. Arrivava la fettunta, i fegatini, i crostoni, le zuppe calde come la ribollita o fredde, come la panzanella, il pecorino toscano, il caciucco, la cacciagione, la trippa o la bistecca alla fiorentina, i fagioli cotti al fiasco e poi per finire i dolci come lo zuccotto, i cantucci, il panforte e tra i vini il brunello, il chianti e talvolta il sangiovese e il vin Santo. Ma la regina di quel banchetto era la bella signora di casa, dagli occhi verdi sereni e dalle gote rosa, sorridente e leggiadra, profonda e quieta, come la sua terra. “Forza mangiate, ce n’è ancora!” Poi arrivava la sera, ci si salutava e si dava appuntamento al giorno seguente al sorgere del sole, quando ricominciava la giornata e magari si contraccambiava l’aiuto della raccolta portando lo stesso contributo nella vigna del vicino. Andando verso casa la gente era allegra e fiera, sotto lo sguardo vigile del campanile della Chiesa. La terra, i suoi profumi, gli aromi e il sudore. Le camicie a scacchettoni degli uomini, i cappelli di paglia, e i vestitoni delle donne con i fazzoletti sul capo, sotto i visi abbronzati e rugosi, cotti dal sole e dalla fatica. Mentre così ragionavo, ero arrivata a casa con in mano un mazzo di ginestre e una bottiglia di vino. Era il mio anniversario di nozze e volevo festeggiare quel 1° settembre del 2011 alla contadina con quel vino, Re delle mani vive della sua gente, come castellana tra fiori di ginestre.

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