Scopriamo subito le carte: se sono andata a vedere l'ultimo film di Nuri Bilge Ceylan è solo ed esclusivamente perchè vincitore della Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes.
Esatto, visto che il precedente C'era una volta in Anatolia aveva avuto su di me un effetto alquanto soporifero lasciandomi dentro gran poco se non la sensazione di non aver la capacità (oltre che la voglia) di andare più in profondità di quanto visto.
Dato però che con i giudizi della Croisette vado a braccetto da parecchi anni (basta vedere come sia Amour che La Vita di Adele si siano aggiudicati anche l'In Central Perk Award nel 2012 e nel 2013), ho voluto dargli una possibilità, sfidando prima di tutto un minutaggio non certo a suo favore (196 minuti).
Quello che mi aspettavo erano paesaggi magnifici, una Cappadocia descritta e registrata in tutta la sua magnificenza, con quelle case, quei villaggi, incastonati nella pietra a rendere ancora più interessante la vita di un albergatore con un passato d'attore e un presente di scrittore.
Peccato, però, che di quei paesaggi ci viene mostrato poco, che l'azione, che i personaggi vadano a chiudersi in stanze eleganti ma claustrofobiche, in camere che sembrano grotte.
Mi aspettavo silenzi, che racchiudessero alla perfezione uno stile di vita lento, che aiutassero ancor più la bellezza dei luoghi.
Peccato, però, che di dialoghi, che di parole, ce ne siano anche troppi, con tutti i personaggi alle prese con discussioni e dissertazioni dal banale al filosofico, con la macchina da presa ferma registrarle e a rendere il tutto ancora più claustrofobico, ancora più pesante.
Teatrale.
A non aiutare, poi, è lo stesso protagonista Aydin, e chi gli sta attorno. Egoista pur nella sua finta umiltà, egocentrico pur nel suo essere un buono, Aydin guarda tutti dall'alto in basso, vuole avere l'ultima parola nelle discussioni, annichilendo così i suoi interlocutori, che sia la moglie, schiacciata dal peso delle sue parole e da una vita di solitudine, che siano maestri o iman che a lui chiedono un po' di carità, un po' di pazienza.
E invece tutti passano sotto il suo giudizio, anche la sorella, forse più giudicante di lui.
I personaggi non sono quindi di quelli che entrano nel cuore, anzi, la loro antipatia, più si avanti nella visione, più viene ad irritare, con espressioni, smorfie e sorrisetti, che rendono ancora più arduo il proseguimento.
Al fatto che il film fosse un film fiume, che quella che veniva raccontata era la storia di giorni qualunque di un albergatore in mezzo al freddo inverno della Cappadocia, ero preparata. Non mi aspettavo intrecci o colpi di scena, non li volevo nemmeno, ma forse un po' più di sviluppo dei fatti, quello sì.
Una sceneggiatura di poche parole la posso accettare, una di parole profuse in continuazione, di schermaglie dialettiche che alla fine dei conti non cambiano nulla, né nelle opinioni di chi disserta né nella vita pratica di questi, anche no.
Il senso di pesantezza si acuisce così, finendo con una voice over di cui si poteva fare a meno.
A salvarsi, però, sono gli ambienti in cui tutto viene incastonato, nonostante la chiusura che va a nascondere per troppo tempo le bellezze ambientali che tolgono il fiato, Nuri Bilge Ceylan sa come fotografare il suo film, dando una vita propria alle stanze e agli studi, donandogli un'estetica storica impossibile da non notare.
Tolto questo, cosa resta di Winter Sleep?
A me, gran poco, se non una sensazione sfiancante e stancante.
A darmi qualcosa in più, dando così anche una dignità e una contestualizzazione al film, le parole dell'unico amico coraggioso che in sala mi ha accompagnato, che in Turchia c'è stato e c'ha abitato, e che ha ritrovato in tutte quelle discussioni, in tutte quelle lunghe disquisizioni che a nulla portano, quanto ha vissuto per mesi davanti a thè che, inevitabilmente, si raffreddano.
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