Woman in Gold: emozionante crociata per un'opera trafugata

Creato il 18 ottobre 2015 da Dejavu

Per quanto ti lasci negli occhi la meraviglia e qualche luccicone, non saprei se Woman in Gold possa definirsi un capolavoro come il dipinto del quale parla. Ciò perché, come hanno detto voci più autorevoli della mia, il sentimentalismo a tutti i costi lo forza, come farebbe un ladro con la cassaforte defraudandone l'intima e potenziale ricchezza.

La combinazione vincente il regista Simon Curtis l'aveva sicuramente tra le mani abbinando due icone come Gustav Klimt ed Helen Mirren. Ma se la giustizia è senza prezzo, come recita la locandina, i sentimenti ne hanno sicuramente uno e non può essere così alto come quello che paghiamo per simpatizzare con gli eroi di questa crociata.

Helen Mirren viene qui diretta da Curtis come accadde in The Queen ed in entrambe le occasioni i panni della protagonista le stanno a pennello, per usare una consona metafora.

Maria Altmann, il suo personaggio, è una donna ormai ottuagenaria scampata al saccheggio della propria casa viennese da parte dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale e poi riparata con il marito in America, dopo una rocambolesca fuga sotto i proiettili dei nemici.

Ryan Reynolds è un avvocato sulle prime assolutamente inconcludente ma assai ambizioso che decide di farsi assumere in un prestigioso studio della downton losangelina dopo un'esperienza da dimenticare come lavoratore in proprio.

Maria Altmann sarà la sua prima cliente. La sua prima e prezzolatissima cliente, c'è da dire. E qui, per quanto la storia sia ispirata a fatti veri, si comprende che per quanto si parli di un ritratto d'Art Nouveau siamo invece in pieno Romanticismo. La Weltanschauung di Curtis consiste nel modellare il mondo che sta per raccontarci secondo una concezione manichea rigidamente divisa tra buoni e cattivi, tra americani riformisti e austriaci reazionari, gli uni volti ad ottenere la liberazione delle opere tenute in ostaggio dagli altri.

Va dunque in scena un terzo conflitto mondiale ove alle armi si sostituisce il diritto internazionale. Gli ordigni sono le parole e le sfide degli avvocati e l'attesa dei verdetti non è meno angosciante di quella per una granata sulla propria testa. Randol Schoenberg (Reynolds) decide di sollevare il caso alla Corte Suprema trascinando l'Austria davanti ai giudici per riscattare l'eredità della propria cliente.

Il passato intanto torna nella mente di Maria e nell'impagabile mimica della Mirren che rivive i giorni del suo matrimonio a Vienna con un elegante marito (l'affascinante Max Irons) culminati nella presa dei suoi averi e nella devastazione della propria famiglia ebrea.

Attraverso di lei anche il celeberrimo dipinto della donna in oro ritraente la zia Adele Bloch-Bauer sembra avere coscienza. Allora comprendi che l'arte visiva di Klimt è solo il pretesto per esercitare l'arte del racconto e della denuncia. Centomila sono le opere mai restituite ai loro proprietari, dice il film in chiusura. Questa è la battaglia per una che potrebbe valerle tutte. Una battaglia ancor più agguerrita quando Maria ed il suo empatico avvocato sono costretti a scendere in campo avverso, rimettendosi alla corte austriaca come ci si rimette alla clemenza del nemico quando le armi ormai sono scariche.

Nel mentre, siamo portati lungo un viaggio emotivo segnato dalla disperazione e dal senso di rivincita nel quale - ed è questa la grandezza del film - compaiono come illuminati gradatamente da una torcia volti noti e sparpagliati. Max Irons, Charles Dance, Elizabeth McGovern, Katie Holmes, Frances Fisher fanno capolino come preziosi incastonati tra Los Angeles ed il capoluogo austriaco, attori della più varia estrazione mescolati tra una nazione e l'altra al pari di soldati sul fronte.

Sam Curtis non è certamente Klimt, come Reynolds non è Perry Mason, ma la sua ultima fatica cinematografica è oro come tutto ciò che il regista tocca. Specie quando tocca Helen Mirren.