Le altre presenze straniere sono la coreana Hyun-Jin Kwak reduce dalla “Internazionale di fotografia” di Reggio Emilia, la giapponese Ito Fukushi che di recente ha esposto al museo d’arte contemporanea di Tokio. Le artiste italiane Anna Valeria Borsari che conduce tra le altre sue attività il centro di documentazione d’arte milanese AR.RI.VI, le genovesi Margherita Levo Rosenberg e Chiara Scarfò, presenti in numerosissime mostre in Italia ed all’estero, la torinese Giulia Caira – ormai considerata un mostro sacro dell’uso della fotografia e del video – la milanese Giovanna Torresin con le sue splendide reificazioni corporee. Completano la rassegna due nomi di grande rilievo: Grazia Toderi, artista che già vanta una mostra personale al Gugghenheim Museum di N.Y., e la bresciana Raffaella Formenti poliedrica artista, che si racconta attraverso già molto noti interventi innovativi sui nuovi media. La mostra organizzata dall’ Uovo di Struzzo di Torino, è curata dal critico genovese, Elisabetta Rota.
Filo conduttore della manifestazione l’assoluta capacità interpretativa della realtà e la grande coerenza con l’uso delle strumentazioni artistiche più evolute da parte dell’universo donna.
La mostra rimarrà aperta fino al giorno 30 agosto 2011
Orari: giovedi sabato e domenica dalle ore 9,00 alle ore 12.00.
Info: uovodistruzzo@fastwebnet.it cell. 3474280926
Questi i link ai siti personali delle artiste:
http://www.giuliacaira.com/
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http://www.annavaleriaborsari.it/
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http://www.basegallery.com/en/artists/Fukushi_Ito.html
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http://raffo-incartamenti.blogspot.com/
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http://www.giovannatorresin.it/index.php
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Per quanto riguarda Charlotte Moorman, vi rimandiamo a questo splendido video/youtube: http://youtu.be/wiEJdOlgcDE , mentre per Marina Abramovic a questo: http://youtu.be/nCqQu624x28
Infine, in italiano e inglese, il testo critico che accompagna la mostra, di Elisabetta Rota:
Wonder Women
L’idea di una una mostra tutta al femminile potrebbe apparire, a una lettura superficiale,
desueta se non ghettizzante, ma l’operazione, a partire dal titolo, ha un senso ben preciso
e sottolinea tutta la forza che esprimono attualmente le donne nell’arte contemporanea,
dove acquistano in tutti gli ambiti sempre più peso e valore: basta visitare qualsiasi
esposizione di livello internazionale per rendersi conto che le proposte più innovative,
oserei dire più vitali in un panorama spesso ripetitivo e autoreferenziale, provengono
proprio dalle artiste, spesso più sciolte e creativamente libere, più aperte alla
sperimentazione anche estrema, più propositive.
Senza arrivare ad affermazioni limite che vedono le donne come reale motore attuale
dell’arte, come affermato di recente in alcuni articoli, è indubbio che c’è oggi molta forza
nell’arte al femminile, una forza nuova ma dalle radici ben salde e storiche che appare in
curiosa controtendenza con l’involuzione generale della società che vede invece le
conquiste della generazione femminista segnare il passo, quando non arretrare
clamorosamente di fronte a modelli dilaganti che solo trenta anni fa sembravano destinati
a rapida estinzione, o, al limite, a una risicata sopravvivenza nell’immaginario dei
componenti più rozzi del genere maschile.
Paradossalmente si potrebbe affermare che, ora che la rozzezza maschile è al potere, la
raffinatezza e la cultura delle donne irrompe nell’arte e conquista una larga fetta di
visibilità in un mondo che, in fondo, un po’ maschile è sempre stato: certamente le
avanguardie storiche potevano vantare molte belle presenze artistiche femminili, di
grande peso e personalità, ma, in fondo, erano sempre viste come eccezioni, come esseri
straordinari che superavano i limiti del loro sesso, mentre la nuova presenza femminile è
molto più diffusa e “normale”, popola le mostre, le accademie, le redazioni dei giornali
specializzati con il suo vissuto e la sua ansia di esprimersi, di riappropriarsi in pieno di
tutte le possibilità creative.
Le vere antesignane sono state le donne artiste degli anni sessanta e settanta del secolo
scorso, contemporanee delle grandi lotte femministe, le prime a differenziarsi dalle
avanguardie maschili, pronte a mettersi in gioco in un lavoro di autoanalisi che toccava i
temi, allora scottanti, della corporeità, della sessualità, dei ruoli e delle identità, le prime a
cercare nuove forme espressive, diverse dalle tecniche tradizionali ma anche dall’oggetto
mentale del concettuale, liberando le proprie tensioni nell’happening, nella performance,
nel comportamento, mischiando e contaminando i generi e usando senza remore le
tecnologie nuovissime come il neonato video.
Sono loro le vere madrine di molte nuove artiste, anche giovanissime, ma la storia e le
radici della creatività al femminile sono molto più antiche: l’archeologa Marija Gimbutas
afferma che le prime opere d’arte dell’umanità nascono in un mondo matriarcale e portano
tutte il marchio simbolico della madre (1), se, come mi piace pensare, ha ragione, questa
nuova forza creativa ha tutti i crismi di un ritorno, di una rivalsa, di una rinascita vitale
dopo millenni di oppressione soffocante.
Sono forti le donne nell’arte di oggi, quindi, e di questa forza vuole portare testimonianza
questa mostra, presentando undici artiste trans generazionali, diversissime tra loro nella
poetica ma accomunate tutte da un forte lavoro di autoanalisi relazionale e da sottili fili di
affinità che si snodano tra le loro opere, come l’interesse per il corpo, per la memoria e per
un certo spirito letterario, tutte caratteristiche che comunque ho sempre trovato molto
presenti nelle opere delle donne di ogni tempo, e la cosa non può stupire: la corporeità
con tutto il suo corollario (ruoli, stereotipi, capacità generatrice) è contemporaneamente
elemento fondante e fardello per ogni esistenza femminile, mentre la letteratura ha spesso
avuto il ruolo di unico sfogo creativo segreto, oltre a quello di unico lavoro intellettuale
concesso, per innumerevoli generazioni di ragazze.
L’inizio simbolico del percorso espositivo è rappresentato dal video di Marina Abramovic e
dall’opera di Charlotte Moormann, esponenti di quella generazione di antesignane storiche
cui ho accennato sopra, mentre Anna Valeria Borsari, artista neo concettuale molto legata
alle tematiche della memoria e delle tracce, presenta un’opera che si può definire di land
art dove compare una traccia di corporeità, una mano misteriosa sulle rive di un lago. La
femminilità orientale, così storicamente diversa dalla nostra eppure così vicina in tanti
piccoli particolari, è rappresentata dai lavori dove si intrecciano memoria e letteratura di
Ito Fukushi, italo-giapponese alla continua ricerca di un punto di incontro e di fusione tra le
due culture in cui si identifica e nelle cui variegate sfaccettature si specchia e dalle
fotografie della coreana Hyin-jin Kwak, incentrate sui ruoli, dove ragazze in uniforme da
collegiali si perdono in spazi desolati e morti, saturi di vuoto esistenziale.
Il vuoto e la disperazione esistenziale sono anche i protagonisti dell’opera fotografica di
Grazia Toderi che documenta la vita dei “Bubble baby”,analizzata senza alcuna morbosità
ma con la partecipazione sentita di chi è consapevole che il dolore del mondo è anche il
proprio dolore.
Il corpo delle donne, il corpo dell’artista dominano poi in maniera indiscussa i video, i
frame e le fotografie di tre artiste: Giulia Caira che gioca con la sua immagine, talora
deformata, specchiata, compressa da plastiche trasparenti, ingabbiata in ruoli stereotipati
interpretati tra l’ironia e l’angoscia, in un profluvio proteiforme di immagini dal sapore posthuman,
Chiara Scarfò, più intimista e legata alla memoria, che vive l’intimità del proprio
corpo come un rifugio interno e personale, quasi un guscio di protezione impenetrabile e
protettivo e Giovanna Torresin che fabbrica ad arte, con mezzi digitali, corazze fisiche per
il proprio corpo o per parti di esso, corazze difensive e/o offensive e, a volte, terribilmente
“agreamant” come gli arabeschi che ingabbiano alcuni dei suoi “cuori” qui esposti
I flussi di informazione e le loro dialettiche, danno infine un’impronta precisa e
caratteristica al lavoro di Margherita Levo Rosemberg che con le parole e le immagini
anche banali che ci soverchiano costruisce forme altre, quasi a dare un senso a ciò che
senso non sembra avere, un’ ancora di salvezza per non naufragare in un flusso
incontrollabile con l’aiuto anche dell’ironia, e di Raffaella Formenti che per questa mostra
ha studiato un’installazione particolarissima, sostenuta da un’operazione di grande
originalità e di grande importanza semantica, rendendo inscindibili catalogo, mostra e blog
dell’artista, tutti elementi indispensabili per avere una visione globale completa
dell’operazione: un progetto che dimostra una volta di più la grande forza innovativa delle
artiste e la loro capacità di aprirsi alle ultime frontiere della comunicazione anche virtuali o,
come dice Raffaella VIR TU ALI.
In sintesi una mostra che offre una piccola panoramica delle opere di queste
contemporanee Wonder Women, che non significa superdonne, ma solo donne forti,
sicure e, soprattutto, fieramente consapevoli del fatto che essere creatrici è molto più
gratificante, nonché divertente, che essere muse ispiratrici.
Elisabetta Rota
Note (1)Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, mito e culto della Dea madre
nell’Europa Neolitica.
Wonder Women
An all women’s exhibition could, at first, seem to be a superficial, obsolete, and marginalizing idea. Yet, the whole operation, starting from the very title, has a highly precise meaning, and it highlights the strength expressed by women in contemporary art, where they are acquiring ever more weight and value. Indeed, by visiting any international exhibition, you may easily realize that all the most innovative, I dare say, even the most vital proposals, in an often repetitive and self-referential scenario, do come from female artists, who are often less constrained and creatively more free and open to even extreme experiments, and, in general, more assertive.
Without supporting more extreme claims that women are the actual drive of today’s art – as maintained in some recent articles -, there is undoubtedly a lot of strength in female art today, a new force with strong and historic roots. It seems to curiously swim against the current of a general involution in our society, where the conquests of the feminist generation are ticking over, if not sensationally receding under the pressure of rampant models, which, only thirty years ago, seemed to be rapidly dying out, or, at best, backing away from a weak survival in our public imagination of the most ordinary components of the male gender.
Paradoxically enough, we could claim that, with today’s power of male grossness, women’s refinement and culture is breaking into art and conquering a big portion of visibility in a world which, basically, has always belonged to men: historic avant-guarde movements would boast important female artists, with a lot of strength and personality, but, after all, they were always considered as pure exceptions, as extraordinary examples trespassing the limits of their gender. Conversely, this new female presence is much more ubiquitous and “standard”, populating exhibitions, academies, newsrooms of art magazines, with their own life experiences and an anxious will to express themselves, to fully regain possession of all their creation possibilities.
Women artists in the ‘60s and ‘70s in the 20th century were the real precursors, contemporaries of the great feminist battles, the first women artists who distinguished themselves from male avant-guarde movements, ready to challenge themselves with self-analysis, dealing with still sensitive topics such as corporeity, sexuality, gender roles, and identity. They were the first to look for new forms of expression, away from traditional techniques, but also from the mental subjects of conceptualism, releasing their tensions through happenings, performances, behaviours, mixing and contaminating genres and using the latest brand new technologies such as the newborn video.
While they are the real sponsors of many new, even very young, female artists, the history and roots of female creativity are much older: according to archeologist Marija Gimbutas, mankind’s first works of art developed in a matriarchal society and they symbolized the mother (1). If – as I like to believe – she is right, this new creative force carries all the signs of a revival, a revenge, a vital rebirth after millenniums of stifling oppression.
Therefore, women in art today are strong. And this exhibition intends to prove it, presenting eleven trans-generational women artists, who, while very different, share a strong work of relational self-analysis and are united by thin threads of affinity linking up their works: such as a focus on the body, memory, as well as some literary spirit. Actually, these are all features that I have always found in the works of women at all times, which is no wonder: the body with all its annexes (roles, stereotypes, generating capacity) is a primary component and, at the same time, a burden of each and every woman, while literature has often been the only secret, creative expression, as well as the only permitted intellectual work for countless generations of women.
The symbolic beginning of the exhibition path is the video by Marina Abramovic and the work of Charlotte Moormann, both exponents of that generation of historic precursors mentioned above. Conversely, Anna Valeria Borsari, a neo-conceptual artist strongly focused on the topic of memory and traces, presents a work that could be defined as land art, with some body traces, and a mysterious hand on the shores of a lake. Oriental femininity – historically so different from ours and yet so close in so many details – is represented by the works by the Italian-Japanese artist Ito Fukushi, where memory and literature intermingle, in a constant search for a common point, promoting a merger between the two cultures she identifies with and mirrors herself in all its variegated facets; and by the photos of Hyun-Jin Kwak – from Korea – highlighting female roles, where girls in high-school uniforms are lost in desolated and dead spaces, surrounded by existential vacuum.
Emptiness and existential despair are also the main features of the photographic works by Grazia Toderi, documenting the lives of “Bubble babies”, which are scrutinized without morbid attitude and with the involvement and participation of someone who is well aware that the world’s misery is also her own misery.
The bodies of women and the artist’s body clearly dominate in the videos, frames, and photos of three more artists: Giulia Caira, who plays with her own image, at times distorted, mirrored, compressed by transparent plastic films, and framed in stereotyped roles between irony and anguish, in a flood of multiform post-human images; Chiara Scarfò, with a more intimist approach and more focused on memory, who lives the intimacy of her own body as an inner and personal shelter, like an impenetrable, protecting, and safe shell; and Giovanna Torresin, who artfully fabricates, with digital means, physical shields for her own body or parts of it, defense and/or offense armors, which are sometimes, terribly “agreamant”, just like the arabesques framing some of her “hearts” on display here.
Finally, information flows and their dialectics, are a clear and unique sign of the work by Margherita Levo Rosenberg: with words and even trivial images that can overwhelm us, she constructs unusual forms and shapes, as if to give a meaning to what is meaningless, a safety anchor, not to be drowned in an unchecked flow, also helped by irony. The installation by Raffaella Formenti was specially designed for this exhibition: supported by great originality and a strong semantic value, she makes the catalogue, the exhibition, and her own blog as inseparable as well as essential elements, in order to gain a comprehensive and global view of the entire operation: a project which once again shows the great innovative power of these women artists and their ability to open up new, even virtual or – in Raffaella’s words, VIR TU ALI – communication frontiers.
In other words, an exhibition that offers, in a nutshell, an overview of the works of these contemporary Wonder Women, which does not mean superwomen, but only strong, confident women who, above all, are proudly aware that being creators is much more gratifying – and more fun – than being inspiring muses.
Elisabetta Rota
Notes (1)Marija Gimbutas, The Language of the Goddess.