Woody in Paris

Creato il 14 dicembre 2011 da Pupidizuccaro

Quante volte capita che il vostro regista preferito scriva un soggetto che sembra gliel’abbiate suggerito voi? Certamente poche volte, ma generalmente tutte le volte che il regista in questione non tradisce le attese di chi lo conosce e apprezza profondamente. E se un film “girato dai fan” sarebbe un film da evitare accuratamente, a volte ne esce qualcosa di più di una semplice strizzatina d’occhio.

È il caso di Midnight in Paris, l’ultimo film di Woody Allen, nelle sale italiane da una settimana e già destinato ad un ottimo incasso. Una pellicola deliziosa – diciamolo subito – degna del miglior Allen dell’ultimo decennio (ma niente di più). Un Allen che forse ha perso il proprio centro, New York, ma ha trovato in questo nuovo stile girovago un habitat che gli permette di ripercorrere le proprie passioni culturali (molto più europee di quanto si possa immaginare) filtrate da una nuova ossessione contemporanea: la difficoltà americana di andare al di là degli stereotipi sull’Europa – complice la politica, l’antico vizio isolazionista di un paese che Woody sembra davvero avere voglia soltanto di massacrare con stilettate di pura, distante, ironia.

Parigi, da sempre la seconda città più amata da Allen e dunque oggi la prima, è protagonista indiscussa del film, omaggiata fin dall’inizio con un commento musicale che è il corrispettivo francese del clarinetto della rapsodia di Gershwin per sempre collegata a Manhattan. Insieme alla città, Gil, lo sceneggiatore interpretato da un perfetto Owen Wilson, balbettante e romantico come il Woody di Stardust Memories : americano follemente innamorato della Parigi della lost generation, quella di Hemingway, Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, della comunità ristretta e alcolizzata che sfruttando la forza del dollaro sollevò dagli stenti artisti come Picasso e Dalì, surrealisti e cubisti, e fece un piacere a entrambi ma soprattutto al mondo. Da quel periodo sono nati i romanzi e i quadri più importanti della prima metà del ventesimo secolo, quelli che il protagonista considera base della sua formazione. Un personaggio che pare avere qualche punto in comune col Woody Allen autore per la televisione negli anni Sessanta, prima della carriera di stand-up comedian e molto prima dell’esordio dietro la cinepresa.

Questo sincero amore intellettuale però si scontra con la povertà di spirito della futura famiglia di Gil. La fidanzata, una classica JAP (Jewish American Princess), principessina dell’umorismo yiddish viziata da papà e incapace di fare qualsiasi cosa a parte lamentarsi, e i suoi genitori, tipici repubblicani post-Bush, incapaci tutti quanti di vedere in Parigi qualcosa di diverso da una gigantesca occasione di shopping.

Lo scontro di cui Gil ancora non ha coscienza vede su una sponda della Senna il realismo, la scelta di sposarsi, andare a vivere a Malibu e mettere nel cassetto il suo progetto di romanzo, e sull’altra la scelta di puntare sulle proprie passioni intellettuali e finire questo romanzo mandando a quel paese Hollywood. A fargli attraversare le acque ci pensa la magia: Gil incontra i propri miti letterari allo scoccare della mezzanotte. Come una Cenerentola più viveur, per lui il sogno finisce all’alba, quando Gertrude Stein non lo consiglierà più sul suo romanzo, quella matta di Zelda Fitzgerald non berrà più l’ennesimo drink e Dalì non insisterà coi suoi rinoceronti.

Di giorno il ritorno alla realtà, sempre più triste e incolore; di notte, una serie di avventure, di chiacchierate, di flirt, con la splendida Marion Cotillard nei panni di Adriana, amante di artisti e nostalgica della Parigi di Lautrec. Perché più indietro si va e meglio è. In fondo al piano inclinato, la decisione: fare parte di quel mondo, di un qualsiasi altro mondo, o di questo?

Adriana farà la sua scelta, ma Allen ci regala in quella di Gil un grande film, che sfugge all’oleografia restituendoci il pensiero più profondo di questa storia che sarebbe piaciuta a Fellini, appena accennato dal personaggio più antipatico, l’amico della fidanzata, Paul, colto e pedante, al quale però il regista concede una crudele ironia tragica in forma di anticipazione morale: la nostalgia è una illusione, la realtà è un’altra illusione, ma quest’ultima è più schietta e rude con noi, come un ottimo maestro. E se la abbracciamo liberamente, con quel coraggio e quella grazia che Papa Hemingway ci raccomanda dalla sua Festa mobile, scopriamo che l’Epoca d’Oro è semplicemente quella di cui avranno nostalgia gli uomini che verranno dopo di noi.