Dramma di sottomissione e di gelosia, Woyzeck, nella regia di Herzog, lascia stupefatti per l'incredibile solitudine in cui si muovono i protagonisti. Le persone di questo cruedele carillon dalle musiche stupende sembrano affollarsi solo attorno alle parate militari e alle occasioni mondane, per poi svanire nei loro recessi insondabili di città abbandonata alla sua maledetta bellezza.Nella folla o in una lunga corsa solitaria, viene da chiedersi: dove sono gli altri? O, più propriamente, dov'è l'uomo?
Woyzeck, già da Georg Büchner, è una tragedia dell'uomo. Il giovanissimo drammaturgo tedesco era incline all'introspezione e alle domande di carattere etico. La sequenza iniziale, in cui il protagonista fa la barba al suo capitano, appalesa senz'ombra di dubbio l'urgenza reale di una prospettiva - non empirica, ma concreta e attuale - della morale, contro le chiacchiere vuote e insulse di chi propone una virtù e una morale da prontuario della conversazione mondana.
Eppure, almeno nel film (perché il dramma di Georg Büchner l'ho letto anni fa e non azzardo qui paragoni di merito), sembra che la riflessione non abbia affatto l'equilibrio, l'organicità e la simmetria dell'organizzazione del pensiero hegeliano: il capitano è scomposto, il dottore crudele, sadico e astratto, e l'ubriaco dell'intermezzo capolavoro - dopo che Woyzeck ha avuto le prove del tradimento di Marie - sembra risalire con il suo pensiero sull'uomo dalle profondità degli inferi, solo per un attimo.
Questo dionisismo filosofico, negativo quant'altri mai, per difetto di vita, non di pensiero o di amore per la vita, ricorda certe soluzioni leopardiane e destituisce di ogni fondamento la riflessione filosofica organica delle autorità, e dunque un pensiero organizzato sulla base dell'autorità e delle gerarchie. L'uomo sta lì, con tutta la sua potenza, a dire ci sono, a dirlo anche quando sbaglia, anche quando, all'improvviso sparisce e non si vede più nulla. L'uomo c'è.