Wu Ming, Il Libretto Rosa e Finzioni

Creato il 13 ottobre 2011 da Fant @fantasyitaliano

C’è una interessante discussione in corso sul Libretto Rosa di Finzioni, un libello che in altri tempi sarebbe stato definito pamphlet o manifesto. Le questioni poste dagli autori in questo documento possono essere sintetizzate all’estremo nei nove punti del cosiddetto ”nonalogo”:

I. Leggere è fico

II. I lettori hanno sempre ragione

III. Sono i libri ad aver bisogno di noi lettori

IV. La letteratura è fatta di discorsi sui libri

V. L’autore dura un attimo

VI.I critici sono noiosi

VII. La lettura è sempre un fatto sociale

VIII. Il mondo funziona come una storia che noi leggiamo

IX. Il futuro è negli immaginari dei lettori

I punti sembrano di una semplicità quasi ingenua, ma leggendo Il Libretto Rosa, ci si rende conto che riportano degnamente delle riflessioni che in questi anni hanno accomunato molti blogger che si interessano di letteratura.

Al libretto ha risposto in questi giorni Wu Ming 2.

Premetto che leggo spesso ciò che scrivono i Wu Ming, che ho apprezzato alcuni dei loro romanzi, ne ho odiato altri e reputo valide molte delle loro lotte culturali.

All’inizio della sua riflessione, Wu Ming 2 parte all’attacco, pur riconoscendo molti punti in comune con gli autori del Libretto Rosa (però non spiega quali), afferma la necessità di un Codice etico per il recensore amatoriale, un Hagakure del dibattito libresco.

È facile rendersi conto, dopo avere letto il Libretto Rosa, e tenendo presente queste premesse di Wu Ming 2, che non può esserci nessun punto di incontro tra le due visioni dell’editoria italiana e della critica letteraria. La sola definizione di recensore amatoriale ammette infatti l’esistenza di un ipotetico recensore di professione, che sia in possesso di qualche strumento tecnico, critico e professionale che lo pone su un piano diverso dal recensore amatoriale.

Basta inserire le parole critico o intellettuale nel campo di ricerca del testo del Pdf  del Libretto Rosa, per rendersi conto di quale sia la disparità di giudizio:
“Ecco un altro cadavere che qualche illuso tenta ancora di rianimare: la critica letteraria. Bisognerebbe essere più precisi con le parole, tuttavia: non la critica letteraria, bensì i critici letterari. Perché se la critica è una facoltà, un esercizio, un’attività inerente al pensiero umano e quindi propria di ciascun individuo, i critici letterari sono solo una piccola compagine di fastidiosi quanto verbosi soggetti.”

Wu  Ming continua citando degli esempi positivi di lettori-critici:
“L’esempio della fanfiction da questo punto di vista è molto istruttivo: nelle comunità dei fan che scrivono storie ispirate alle loro narrazioni preferite, esistono spesso gruppi di beta-lettori. Queste persone si offrono di leggere i testi in bozza per sottoporli a una revisione tra pari. Tale revisione, per funzionare al meglio, si ispira a regole scritte e condivise, ovvero “presupposti pedagogici che guidano il processo”. A mio parere, l’intera Repubblica dei Lettori avrebbe bisogno di esplicitare i suoi presupposti pedagogici.”

Notare che quando Wu Ming 2 immagina una comunità di lettori lo fa pensando subito a narrazioni già prodotte e digerite. Le comunità di fanfiction (ad alcune delle quali ho partecipato quando ero adolescente) non fanno altro che elaborare personaggi e narrazioni già esistenti, aggiungendo poco o nulla a queste storie. Troviamo le fan di Dragonball che immaginano storie omosessuali tra Goku e Vegeta, fan di Neon Genesis Evangelion che scrivono storie alternative in cui Shinji riesce a scoparsi Misato etc etc…

Niente di male, per carità, ma chiunque sia passato in simili ambienti ha chiara l’aria asfittica che vi si respira.

Agli attacchi al mondo dell’editoria Wu Ming 2 risponde:
“Poi c’è la reductio ad unum che abbiamo criticato tante volte in questi ultimi mesi: la stessa che ha fatto parlare di un “Popolo della Rete”, protagonista assoluto della vittoria nei referendum; la stessa di chi inveisce ogni giorno contro la Casta, i costi della politica, il capitalismo di rapina e la mafia, per poi proporre come contraltare la gente, i cittadini, la società civile in quanto tale. Si rimuovono le contraddizioni interne al blocco che si vuole chiamare Popolo, Noi, Società e si accentuano, di contro, le opposizioni tra questo interno falsamente omogeneo e i cattivi che ne stanno fuori. “

Il discorso di Wu Ming non mi convince. È sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, certo. Ma è lo stesso discorso di un politico che si batte per mantenere inalterati i propri privilegi. Se non si creano blocchi contrapposti, come si fa a costruire un dialettica che abbia un senso? Se non si crede che i nazisti fossero un Unicum(ci sarà pure stato qualche buon padre di famiglia, eh) e dunque non si ricorre ad una riductio ad unum, come si fa ad organizzare una resistenza?

Il discorso da fare è un altro: nel merito, è vero o no che il 99% degli editori e dei critici letterari sono un danno per la cultura, sì o no? Se sì, cosa possiamo fare per cambiare questa situazione?

Evidentemente la risposta di Finzioni è SÌ, mentre quella dei Wu Ming (o almeno Wu ming 2), come vedremo in seguito, è NO.

Tutte e due le risposte mi sembrano legittime, ma ciò che non mi piace dell’atteggiamento di Wu Ming 2 è che mascheri la sua opinione dietro mille ragionamenti contorti, pur di non esprimerla chiaramente:
“Se i lettori continuano a comprare romanzi tradotti ad mentulam canis, che bisogno c’è di avere più cura? Il cliente ha sempre ragione. Se l’autore incrementa le vendite sputando sentenze al famoso talk show, perché non puntare tutto sulle apparizioni televisive? Il cliente ha sempre ragione. Io invece, da cliente, ancora ringrazio il barista che un giorno mi disse: piantala di mettere lo zucchero nel caffè, uccidi l’aroma. Quel suo consiglio autorevole mi salvò dal piattume della dolcificazione quotidiana.”

Io non conosco il meccanismo che permetta ad un autore di andare a sputare sentenze in un talk show. Ma posso sospettare che dietro tale meccanismo non possa che esserci la mano invisibile dell’editore (o del suo ufficio marketing). Con le parole dei ragazzi di Finzioni:
“Il successo di un libro è conseguenza delle apparizioni televisive del suo autore e dello spazio-scaffale o spazio-vetrina che gli editori e i distributori negoziano (leggasi: comprano) nelle librerie di catena.”

“Ma oggi, sostengono i finzioniani, non esiste più alcuna auctoritas. Dunque tocca a Noi Lettori autorizzarci, cioè “farci autori del nostro giudizio”. Il che, mi pare, è proprio l’esatto contrario dell’aver sempre ragione, pretesa tipica di chi l’auctoritas non ce l’ha, ma la vuole imporre lo stesso.”

E perché dovrebbero averla gli editori proponendoci la loro merce avariata? Perché Wu Ming 2 non risponde alle precise accuse alle case editrici? È vero o no che il successo di un romanzo, oggi, dipende interamente da quanto le case editrici pagano per spazzi nelle librerie e pubblicità?

Per fortuna, dopo poche righe, aggiunge:
Qui ci si misura con soggetti privati, profitti, quote di mercato e sono lontani i tempi in cui Giulio Einaudi teorizzava la necessità, ogni anno, di pubblicare almeno quattro volumi di sicuro valore e di sicura perdita. Evitiamo di chiedere agli editori di essere “buoni” e impariamo a considerarli come una normale controparte.

Leggendo infatti l’articolo precedente, quello sulla defeticizzazione della rete, di cui sottoscrivo anche le virgole, su Steve Jobs e compagnia cantante, avrei reputato la cosa come una incoerenza. Come rapportarsi agli editori se non come capitalisti seppure stilosi come i maglioncino del povero Steve?

“Io invece, da cliente, ancora ringrazio il barista che un giorno mi disse: piantala di mettere lo zucchero nel caffè, uccidi l’aroma. Quel suo consiglio autorevole mi salvò dal piattume della dolcificazione quotidiana. Ma oggi, sostengono i finzioniani, non esiste più alcuna auctoritas. Dunque tocca a Noi Lettori autorizzarci, cioè “farci autori del nostro giudizio”. Il che, mi pare, è proprio l’esatto contrario dell’aver sempre ragione, pretesa tipica di chi l’auctoritas non ce l’ha, ma la vuole imporre lo stesso.”

Infatti pure il mio libraio di fiducia mi consigliava libri validi. La metafora o è mal posta, o è capziosa. Il barista sta al libraio come l’editore sta al CEO di Nestlé che produce il Nespresso. Non mi pare che tutte le volte che qualcuno scende in libreria, ci trovi Marina Berlusconi che lo consiglia su cosa leggere e cosa no. I profitti di un barista dipendono anche dal suo modo di rapportarsi con i clienti, mentre quelli di una multinazionale, dalla capacità di plagiare il pubblico.

Nel mondo 2.0 (definizione ad metula canis, come dice sopra Wu Ming 2, ma che rende l’idea), l’editore è un impostore, un tizio losco che deve scomparire perché non fa che danneggiare la libertà dei lettori di leggere in base alla qualità e non ai soldi che l’ufficio marketing spende per lanciare questo o quell’autore. È ovvio che questo discorso fa di tutta l’erba un fascio(come fa giustamente notare Wu Ming 2), ma nulla impedisce agli editori in buona fede (io credo ce nesiano pochi, pochissimi) di adeguarsi ai tempi prima che l’ondata del cambiamento li spazi via, si chiami la rivoluzione Amazon, Google Books o autoproduzione.

Ben vengano gli artigiani del romanzo e della cultura. Non servono migliaia di euro spesi per pubblicizzare un romanzo, stamparne un numero di compie spropositato rispetto a quelle che verranno effettivamente acquistate (cosa che capita anche per i migliori best seller), non serve un editor prezzolato che passi il tempo a tirare su i pantaloni dello scrittorucolo incompetente messo lì solo per pratiche clientelari e dio solo sa che altro.

Secondo la parabola del barista profetico, ciascuno di noi potrebbe andare dal CEO della Nestlè ed avere con lui il seguente dialogo:

“Mi scusi, signor amministratore delegato, il suo caffè fa proprio schifo.”
“Ma che dice, è buonissimo. Non ha visto la pubblicità con George Cloney? Io stesso scelgo i cicchi ad uno ad uno.”

È evidente che il giusto parallelo da trattare è quello tra un piccolo editore digitale (o qualsiasi sarà la forma futura di produzione di ebook), e il lettore critico. Mettiamo io cerchi un romanzo storico, ho una serie di siti di piccoli editori digitali che seguo su Twitter, Facebook o semplicemente attraverso feed e che si occupano del genere. Faccio un giro sui loro siti e scelgo il libro da comprare in base alla recensioni positive di altri utenti. A questo punto i casi possibili sono due :

  1. L’ebook fa schifo, o perché è impaginato a cazzo o perché l’autore è una scimmia che batte a caso sulla tastiera.
  2. L’ebook è buono e decido di lasciare un commento positivo, in modo che i futuri lettori potranno trovarlo più facilmente.

Noterete che questo scenario è già parzialmente reale con siti come Amazon e già pienamente realizzato con siti come Ebay per qualsiasi cosa non sia un libro. Dico parzialmente perché Amazon è una multinazionale che pensa solo ai profitti, esattamente come la Mondadori. L’editoria che va costruita è invece quella degli artigiani del web, che investono il loro tempo ed il loro lavoro nella produzione di ebook in cui credono e la cui reputazione dipende dalla qualità di ciò che pubblicano. A Stephen King non frega nulla, come non frega al suo editore, che i suoi ultimi libri facciano pena. Non lo leggi? Compri il libro e scopri che le pagine sono state riempiete come foto di diti medi alzati e scritte tipo: “Ti abbiamo fregato altri venti euro, stronzo!”?

Fatti tuoi, che cosa farai ora? Intendi lasciare una recensione negativa sul sito di King? Oppure telefonerai alla Mondadori per protestare contro il fatto che il libro che ti hanno venduto è solo un insieme di offese al lettore?

Tornando al discorso che sul mondo dell’editoria digitale non esiste bianco o nero, il discorso vale anche per Amazon, il cui unico contributo positivo è quello di diffondere tecniche e strumenti (come il Kindle) che introducono nuovi modi di produrre e diffondere cultura.

Se la tipografia di Gutemberg non fosse andata distrutta durante l’incendio d Magonza, probabilmente l’invenzione della stampa a caratteri mobili non si sarebbe diffusa così velocemente o ci sarebbe stato un fastidioso monopolio iniziale, con sfruttamento dei lavoratori e tutte le brutte cose che fa Amazon per non farti pagare la spedizione e farti lo sconto del 50%. Ciononostante, dal punto di vista culturale la rivoluzione ci sarà e sarà valida.

Leggiamo quello che scrivono i ragazzi di Finzioni al riguardo delle case editrici:
I gruppi editoriali non hanno alcuna legittimità e alcuna credibilità in fatto di dibattito culturale. Fatto salvo il lavoro appassionato di alcuni editor e redattori, le scelte dei grandi editori – coloro i quali potrebbero davvero dare un contributo all’educazione civile del paese – sono determinate solo dalla logica del profitto. Una logica – per il colmo dei colmi – che si declina in pratiche spesso autolesionistiche, visto l’insuccesso di molte operazioni commerciali.”

Wu ming scrive, citando Il Libretto Rosa a proposito del valore di un libro:

““Parole come letterarietà devono sparire, affogate da una risata. L’unico predicato legittimo sarà l’aggettivo valido, cioè che possiede un valore per chi parla.”
Dunque: 1) “il valore di un libro” sta nel giudizio che i lettori ne danno nel tempo e 2) tale giudizio deve esprimersi nei termini di valido/non valido. Ne consegue che “il valore di un libro” sta nel “valore che i lettori gli attribuiscono nel corso del tempo”.
Tutto questo parlare di valore mi fa pensare alla lettura come all’estimo di un terreno e ai lettori come tante agenzie di rating. “

Qui si confonde valore, con rating. La parola inglese per valore è value, valutare è evaluate mentre l’equivalente italiano di rating è voto, valutazione. Il verbo che esprime l’azione di giudicare secondo una scala è to rate, non to evaluate.

C’è una bella differenza e, soprattutto, non c’è alcun punto di contatto tra i due termini rating e valido.

Questa parte dell’intervento di Wu Ming mi ha ricordato per forma e contenuti un articolo di una settimana fa di Loredana Lipperini che si soffermava sul fatto che alcuni lettori rivendichino competenze da editor(sic.) È evidente che la cosa proprio con va giù a Wu Ming e compagnia scrivente, che finiscono per aprire la discussione al riguardo anche quando la situazione non darebbe adito a farlo. Alla fine del commento, con un espediente retorico che mi pare un poco forzato, se non proprio un colpo basso mascherato(che io sappia non ci sono motivi di scontro tra Wuming e Finzioni), Wu Ming 2 associa la comunità di lettori alle agenzie di rating. Ammettiamolo, data la fama che le agenzie di rating hanno di questi tempi, è un po’ come paragonare i lettori(e dunque chi ne difende i diritti) a dei nazisti e farla franca.

Infine, le righe già citate:

Dunque: 1) “il valore di un libro” sta nel giudizio che i lettori ne danno nel tempo e 2) tale giudizio deve esprimersi nei termini di valido/non valido. Ne consegue che “il valore di un libro” sta nel “valore che i lettori gli attribuiscono nel corso del tempo”

Non mi sembrano nulla di assurdo e, per dirne una, mi ricordano certe definizioni di Calvino sui classici come materia soggettiva, ma anche inter-soggettiva (relativa alla comunità dei lettori):

“Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. “

Continuando, Wu Ming 2 cerca di proporre una alternativa alla dialettica “facile e leggera” dei Finzioniani:

“La vera rivoluzione copernicana, oggi, non è sostituire la cartina al tornasole di Voi Critici con quella di Noi Lettori, ma rimettere al centro della lettura, come suo scopo principale, l’inseguimento rocambolesco dei significati.”

Francamente non capisco che diavolo significhi “inseguimento rocambolesco dei significati”, mentre la citazione che WuMing fa di Roland Barthes a me pare chiarissima:
«La posta del lavoro letterario è quella di fare del lettore non più un consumatore ma un produttore del testo. La nostra letteratura è segnata dal divorzio inesorabile mantenuto dall’istituzione letteraria tra il fabbricante e l’utente del testo, tra l’autore e il lettore. Questo lettore si trova allora immerso in una sorta di ozio, di intransitività, e, per dir tutto, di serietà: invece di essere lui a eseguire, di accedere pienamente all’incanto del significante, alla voluttà della scrittura, non gli resta in sorte che la povera libertà di ricevere o di respingere il testo: la lettura si riduce a un referendum» (Roland Barthes, S/Z, 1970)

A voi giudicare quanto le definizioni dei finzioniani si applichi all’espressione “inseguimento rocambolesco dei significati”:

“Noiosi (i critici letterari) perché parlano una lingua esoterica comprensibile solo ai propri simili. Gente che si (s)parla e si scrive addosso, nella doppiezza, che dice a nuora affinché suocera intenda.”

Ma non è che i Wu Ming se la sono un po’ sentita?


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